"È una bella prigione, il mondo"
William Shakespeare
Se ad oggi si parla troppo poco di carcere, delle donne recluse e delle
problematiche femminili, legate agli istituti penitenziari, se ne parla ancor
meno.
In Italia le donne in carcere sono pochissime,
ovvero il 4%, una percentuale
decisamente minoritaria che forse proprio per questo rimane a margine nelle
cronache. Inoltre, il fatto che siano una piccola minoranza, in un universo
pensato per il genere maschile, le rende ancora più
invisibili e le espone a una situazione ancora più penalizzante.
Insomma,
le differenze di genere continuano ad esistere anche dietro le sbarre.
Per quanto riguarda il rapporto
crimine-donna, gli studi indicano che il sesso femminile ha una soglia
criminale più elevata, commette cioè meno reati, e quando lo fa è coinvolto
poco in reati socialmente pericolosi e violenze gravi. In cella le donne finiscono
soprattutto per furti, scippi, reati legati al consumo di stupefacenti.
Dai diversi studi emerge anche che
spesso queste detenute presentano un passato problematico, fatto di abusi,
violenza domestica e la maggior parte proviene da condizioni di marginalità
sociale, aspetto che riguarda comunque l'intera popolazione carceraria, ed il
disagio, che non riesce a trovare risposte "fuori", finisce
"dentro" per incontrarsi con quello provocato dalla detenzione
stessa.
I detenuti sono costretti a confrontarsi con una
nuova realtà, il più delle volte lontanissima dal termine riabilitativo, fatta di degrado e povertà, non solo da un punto di vista pratico, ma
soprattutto sociale e relazionale. Chi è in carcere soffre di deprivazione affettiva, le donne
ancora di più, in particolare nei rapporti di maternità e genitorialità.
Dalle
diverse storie emerge anche una sofferenza legata ai loro ruoli sociali, un
sentirsi meno, le donne generalmente sostengono le reti di cura e familiari, ma
quando vengono a mancare ricevono uno scarso sostegno. Chi è in carcere ha
commesso un reato e quindi di per sé è biasimabile, una donna lo è due volte; è come se commettendo un crimine si venisse meno a una
certa idea di femminilità. Sembra qualcosa di antico, ma in realtà il giudizio
morale è ancora presente e le donne in carcere non solo lo sentono, ma lo
interiorizzano. Nella società sono solitamente loro a portare il maggior
peso di responsabilità affettiva, e così la detenuta oltre al peso della
carcerazione, si sente colpevole per aver abbandonato e tradito la propria
famiglia, si sente responsabile per non poter far nulla e somatizza il suo
malessere.
Da
un punto di vista più pratico, gli spazi in cui sono costrette a vivere si
presentano carenti, poco igienici e sovraffollati, vivono ristrette in uno dei
cinque istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia
Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri
maschili. Ma una vita dietro le sbarre significa anche altro: ginecologi o
pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per
l’igiene intima, senza contare poi il problema dei bambini detenuti.
Il
carcere spoglia le persone, non solo di quella che era la loro vita precedente,
ma anche della femminilità, e questo accade perché le detenute devono
sottostare a regole plasmate su schemi ed esigenze maschili. Il rischio
maggiore in carcere è quello di perdere di vista se stessa, materialmente e
psicologicamente, senza potersi ritrovare, neppure in un’immagine, dato che
neanche gli specchi sono permessi, se non quelli minuscoli.
In
carcere divieti e limitazioni non riguardano solo la possibilità di muoversi e
di agire ma anche di essere, dove si scontano ulteriori pene e forse quelle più
crudeli, come il controllo dei sentimenti e delle emozioni.
Un
luogo nel quale, oltre alla libertà, all'intimità, alla soggettività, si viene
private fin dall'ingresso delle piccole e grandi cose che sono parte della vita
di una persona, che contribuiscono a renderla se stessa, a sorreggerla
nell'identità e nella femminilità.
Non a caso la sofferenza psichica è
molto diffusa negli istituti penitenziari, soprattutto con disturbi legati a
stress post-traumatico e secondo alcune ricerche riguarda circa l'80 per cento
delle detenute. Studi dell'Unione Europea dimostrano poi che le donne
sottoposte alla detenzione tendono a richiedere un numero maggiore di servizi
sanitari rispetto agli uomini, il doppio per quanto riguarda il sostegno
psicologico. Sono inoltre molto frequenti episodi di autolesionismo tra le
recluse e le conseguenze
fisiche di tale disagio sono evidenti: disturbi al ciclo mestruale, ansia,
depressione, ma anche anoressia e bulimia.
Una delle possibili cause di tutto
ciò è rappresentata sicuramente dall'inefficienza del sistema di giustizia
penale nel riprogettarsi sulla base delle "specificità femminili".
Tenere
presente cosa significa essere donna della popolazione carceraria vuol
soprattutto dire garantire loro maggiore protezione e sicurezza.
Se la mancanza di spazio, la scarsa
igiene e il sovraffollamento appartengono purtroppo all'intera comunità
carceraria, per le donne ci sono esigenze fisiche, affettive ed emotive dai
connotati molto dolorosi. Spesso relazioni interrotte, separazioni, distacchi
coatti dal resto della famiglia, ma in particolare dai propri figli.
Il dramma delle madri carcerate è
senza dubbio uno degli aspetti più gravi, nel caso il piccolo condivida la
detenzione all'interno dell'istituto penitenziario, ma anche quando è affidato
fuori, la maternità è costretta
a subire una violenta e immediata interruzione.
Per gran
parte di loro i figli sono forse il capitolo più doloroso, ad oggi sono una
cinquantina quelli che vivono "dietro le sbarre" insieme alle proprie
madri.
Anche se
non ne hanno colpa, questi bimbi devono trascorrere i primi 3 anni di vita
dietro le sbarre, in spazi fatiscenti e malsani, alcuni sono nati in prigione,
altri sono stati portati dietro le sbarre per non essere tenuti lontani dalle
madri. Il giorno del loro terzo compleanno tende a consumarsi il distacco,
vengono affidati a parenti oppure messi in istituti, il carcere e la
separazione a questa età è impossibile da comprendere, li segnano per sempre.
Ad oggi,
nel nostro Paese, si fatica a trovare e mettere in pratica un’alternativa
valida. L’Icam, Istituto a custodia attenuata per detenute madri fino a tre
anni, nato a Milano nel 2007, è un primo passo avanti: qui una decina di donne,
perlopiù straniere, vivono in una struttura dove vigono le stesse regole del
carcere, ma in luoghi senza sbarre e controllate da agenti in borghese. La
mattina i bimbi vengono portati al nido di zona, mentre le madri rimangono
dentro, impegnandosi in attività volte al recupero sociale.
Il
Parlamento Europeo, inoltre, ha invitato gli Stati membri a considerare per le
giovani madri pene alternative alla detenzione, come ad esempio le comunità,
onde evitare che il bambino venga loro sottratto nelle 24/72 ore successive
alla nascita, come generalmente succede, o che viva insieme a lei in una
struttura carceraria. Questa misura dovrebbe valere anche per le donne
partorienti e per i detenuti uomini con a carico figli minori, proprio perché è
l’interesse del bambino che ogni Stato deve tutelare, con la salvaguardia
dell’intera famiglia.
Inoltre
sarebbe necessario aumentare i centri di detenzione femminili e ripartirli
meglio sul territorio proprio per facilitare il mantenimento dei legami
familiari. Le istituzioni carcerarie dovrebbero adottare norme più flessibili
per quanto riguarda frequenze, durata e orari di visita e le sale di incontro
dovrebbero essere più accoglienti in modo da rendere le visite tra familiari
piacevoli e meno “intrise” della cupa atmosfera carceraria.
E dopo il
carcere? Non da ultimo, le
istituzioni dovrebbero garantire a tutti i detenuti, uomini e donne,
possibilità di impiego adeguatamente retribuite e corsi di alfabetizzazione,
istruzione, formazione professionale, adeguati alle esigenze del mercato di
lavoro.
In particolare il Parlamento invita
tutte le istituzioni ad usare particolare attenzione per quanto riguarda il
reinserimento nella società degli ex detenuti, attuando misure di assistenza
durante e dopo la detenzione. Soprattutto le donne madri e le minorenni, una
volta uscite dal carcere, dovrebbero essere aiutate per la ricerca di un lavoro
e di un alloggio, tutto questo per salvaguardare l’interesse dell’intera
famiglia e soprattutto per evitare situazioni di esclusione sociale che spesso
sono la causa di nuove reclusioni.
Qualcuno potrebbe dire che
queste persone il carcere se lo sono cercato e meritato ed è vero nella maggior
parte dei casi, ma sono anche convinta che, come uomini e donne appartenenti ad
una comunità civile, questo tipo di affermazione non può bastarci, perchè non
porterebbe a niente, solo ad altro dolore, vendetta, rabbia.
Bisogna invece credere nelle possibilità
dell'uomo, sempre, credere e crearle, lavorare affinchè si abbiano le seconde
opportunità per riconquistare se stessi e la propria vita, per riorganizzarsi e
reagire alla sofferenza quando si è colpiti e schiacciati. Bisogna vivere e
cercare di abbattere le nostre sbarre, soprattutto quelle mentali.
Vorrei
concludere dando spazio alle parole di una detenuta, le quali, spero, riescano
ad irrompere nelle nostre vite e a farci respirare il dolore e l'ingiustizia
che ogni donna vive in carcere:
“Io sono entrata
qui dentro quando ero giovane. Quando vado in permesso e mi vedo finalmente
tutta intera allo specchio, mi ritrovo improvvisamente vecchia. Io la possibilità di vedere la mia faccia
invecchiare non ce l’ho avuta, non ho visto il mio viso cambiare giorno dopo
giorno. E ora non so più che donna sono”.
Dott.ssa Valentina D'alessio
Laureata in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus