martedì 27 gennaio 2015

PERCHÉ CI INNAMORIAMO DELLA PERSONA SBAGLIATA?


Ci si innamora per caso?
Spesso ci succede di essere attratti in modo quasi immediato di una persona che magari conosciamo da poco tempo.
Perché si innescano questi meccanismi per cui due individui si attraggono inconsapevolmente?
L’attrazione, per capirci la chimica, non nasce per caso! Si è  già predisposti inconsciamente a quel tipo di persona. Da un punto di vista psicoanalitico le motivazioni sono riconducibili al proprio inconscio storico.
Cos'è l’inconscio storico?
 Ognuno di noi ha una vita parallela inconscia che inizia dalla nascita e che spesso si incastra e si estrinseca nella vita reale tanto da condizionare le nostre scelte.
Dal terzo anno di vita il nostro storico inconscio traccia una sorta di percorso determinato dal proprio vissuto infantile, sul quale viene sovra-strutturato il proprio conscio,che farà da precursore per tutti i futuri rapporti interpersonali e sociali che si stabiliranno nel corso della vita adulta.
Chi ci piace è colui o colei che combacia perfettamente con i nostri sintomi. In altre parole siamo attratti da chi entra in risonanza con il bambino che ha tracciato il nostro storico inconscio. Questa condizione psicologica ci riconduce al primo rapporto d’amore della nostra vita, quello con nostra madre/nostro padre.
Ed è nei rapporti o istinti primordiali, quali mangiare, difendersi, amare che si estrinseca il proprio storico inconscio riproducendo, nel caso dell’innamoramento, la relazione adulta in quella infantile impressa in noi in modo indelebile. Dunque la persona amata sarà sempre sovrapponibile al genitore che rappresenta. In realtà però, tale sovrapposizione non corrisponde al padre o alla madre reali, ma alle immagini che di loro abbiamo introiettato nell'inconscio.
Perché si innesca questo processo psicologico? In che modo le esperienze infantili hanno la massima influenza sulla scelta del partner?
Perché speriamo che quella persona ci aiuterà a guarire le ferite del passato,che ci  darà quello che i genitori non sono stati capaci di darci.
Nel corso dello sviluppo psicosessuale del bambino,  il genitore del sesso opposto rappresenta il primo oggetto d’amore.
Se la relazione con il genitore non è stata sufficientemente soddisfacente per il bambino, una volta adulto, ricercherà nel partner un sostituto simbolico che lo rappresenti.
Chi diventa il partner ideale?
Si cerca dunque nel compagno, la madre o il padre ideali, nel tentativo inconscio di soddisfare nel presente il proprio bisogno infantile di amore frustrato, si cerca oppure un partner che presenti le caratteristiche negative del genitore, con l’intenzione inconsapevole di cambiarlo, così da rivivere il passato per riparare le antiche ferite.
Nel replicare questi tratti negativi nella nostra scelta del partner, la nostra mente inconscia sta tentando di ricreare le condizioni dell’infanzia per correggerle, di ritornare cioè sulla scena per chiarire le questioni irrisolte del passato.
Atteggiamento passivo o reattivo nella scelta di un partner.

Tale atteggiamento reattivo scaturisce inconsciamente nella donna che ha sofferto per l’assenza del padre (fisicamente o emotivamente lontano),  per cui cercherà nel partner un sostituto della figura paterna, determinando la propria scelta su uomini che possiedono caratteristiche di autorità, potere, e sicurezza.
L’atteggiamento passivo invece scaturisce nel caso in cui si legherà a uomini irresponsabili, imprevedibili o poco presenti, esattamente com'era il genitore reale, con la speranza inconscia di cambiarli e soddisfare così l’antico bisogno di essere amata dal padre.
http://www.giacinto.org/perche-ci-innamoriamo-della-persona-sbagliata/


L'OTTIMISMO

Leandro è il tipo di persona che ti fa piacere odiare perché è sempre di buon umore ed ha sempre qualcosa di positivo da dire. Quando qualcuno gli chiede come va, lui risponde:
"Se andasse meglio di così, sarei due persone!" E' un'ottimista.
Se un suo amico ha un giorno nero, Leandro riesce sempre a fargli vedere il lato positivo della situazione.
Vederlo mi incuriosiva e così un giorno gli chiesi:
"io non capisco, non è possibile essere ottimista ogni giorno, come fai?"
Mi rispose. "ogni giorno mi sveglio e mi dico, oggi avrò due possibilità. Posso scegliere di essere di buon umore o posso scegliere di essere di cattivo umore. E scelgo di essere di buon umore. Quando qualcosa di brutto mi accade, io posso scegliere di essere una vittima o d'imparare da ciò. Ed io scelgo d'imparare.
Ogni volta che qualcuno viene da me a lamentarsi per qualcosa, io posso scegliere di accettare le lamentele, o posso scegliere di aiutarlo a vedere il lato positivo della vita.Ed io scelgo il lato positivo della vita."
"Ma non è sempre così facile" gli dissi. "Si lo è" disse Leandro "La vita è tutta una questione di scelte. Quando tagli via tutto ciò che non conta, e tutta una questione di scelte. Sta a te scegliere come reagire alle situazioni, sta a te decidere come lasciare che gli altri influenzino il tuo umore. Tu scegli se essere di buon umore o di cattivo umore. Alla fine sei tu a decidere come vivere la tua vita"
Dopo quella conversazione ci perdemmo di vista, ma spesso mi ritrovai a pensare alle sue parole, quando dovevo fare una scelta nella mia vita, invece di reagire negativamente agli eventi.
In seguito venni a sapere che Leandro aveva avuto un brutto incidente, era caduto da 18 metri di altezza, e dopo 12 ore di sala operatoria fu rilasciato dall'ospedale con una piastra d'acciaio nella schiena. Sono andato a trovarlo e gli ho chiesto come si sentisse:
"Se stessi meglio sarei due persone" rispose "vuoi vedere le mie cicatrici?"
"Ma come fai?" gli chiesi "ad essere così positivo dopo quello che ti è successo?"
"Mentre stavo cadendo, la prima cosa a cui ho pensato sono stati i miei figli. Poi mentre giacevo per terra, mi sono detto che potevo scegliere di vivere o di morire. Ed ho scelto di vivere"
"Ma non hai mai avuto paura?"
"Sì quando mi hanno portato in ospedale ed ho visto l'espressione sul viso dei medici, ho avuto paura, perchè era come se guardassero ad un uomo morto. Poi l'infermiera mi ha chiesto se avessi allergie, ed io risposi...Sì. Tutti mi guardarono ed io urlai: sono allergico alla... gravità!. Tutti scoppiarono a ridere, ed io dissi: ed ora operatemi da uomo vivo, non come se fossi già morto"
Leandro mi ha insegnato che ogni giorno abbiamo la possibilità di scegliere di vivere la vita.. Quindi è inutile preoccuparsi sempre per il domani, perchè ogni giorno ha i suoi problemi su cui scegliere di vivere, e domani penseremo ai problemi di domani. Dopo tutto oggi è il domani ti cui ti preoccupavi ieri.


LE COSE CHE HO IMPARATO NELLA VITA


Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

Che non importa quando sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E per questo, bisognerà che tu la perdoni. Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
Che le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
Che la pazienza richiede molta pratica.
Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
Che solo perchè qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Che non si deve mai dire ad un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.
Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre, ma tante volte, guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se fosse stata la miglior conversazione mai avuta.
E’ vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
Non cercare le apparenze, possono ingannare. Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
Trova quello che fà sorridere il tuo cuore.
Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
Sogna ciò che ti và, vai dove vuoi, sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
La felicità? Ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l’importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.
Il miglior futuro? Basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange.
                                                                        Paulo Coelho




mercoledì 21 gennaio 2015

LA PAZIENZA




Se invitate la gente a dire che cosa le viene in mente pensando alla pazienza, ottenete risposte del genere: << Una donna rassegnata, un bue, una persona anziana che fa passare il tempo >>. Invece, all’impazienza: << Un giovane vivace, un capo che da ordini in modo imperioso, una donna bella e capricciosa >>. Ci sono poi molti che considerano la pazienza e l’impazienza due qualità innate, come sarebbero il colore degli occhi o la lunghezza del naso. Alcuni addirittura si vantano dell’impazienza del marito o della moglie. << Non riesce a star ferma un momento, non sopporta le lungaggini >> dicono, come se fosse una prova di vivacità intellettuale o di forza di carattere. Sono invece convinto che la pazienza sia una virtù fondamentale. E, tanto per cominciare, non è affatto innata. La pazienza si apprende, si costruisce col ferreo esercizio della volontà. Il bambino è impaziente. Se ha fame piange, se non c’è la mamma si dispera. L’adolescente è impaziente, morde il freno per stare qualche ora fermo a scuola. Ma anche il bambino, anche il ragazzo, se vogliono riuscire in uno sport, dal calcio alla pesca, devono subito disciplinare i loro impulsi. Devono imparare a stare immobili, attenti, e poi scattare quando è il momento, né un istante prima, né un istante dopo. Devono ripetere pazientemente centinaia di volte lo stesso gesto per perfezionarlo. Molta gente confonde la pazienza con la pigrizia, il disinteresse, l’apatia. Stati psichici caratterizzati dalla mancanza di energia vitale. Invece la pazienza è la capacità di controllare una grande energia vitale senza farsene travolgere, ma indirizzandola a un fine. Nei momenti difficili della vita noi dobbiamo essere capaci di perseguire tenacemente una meta, di volerla con tutta la forza del nostro animo, eppure dobbiamo anche saper aspettare. Come è più facile dare in escandescenze, sbattere una porta! Difficile è sopportare la prima, la seconda, la terza sconfitta e, ogni volta, ricominciare, ritessere le file, cercando nuove strade, nuove alleanze. Tutte le volte che dobbiamo affrontare una grave prova, come un concorso, un affare, una malattia, ma anche un amore, la vera difficoltà è saper resistere giorni e giorni, mesi e mesi, alla più atroce incertezza. La pazienza, in questi casi, è il nome che diamo al coraggio. Il coraggio è la virtù del cominciamento. La pazienza è la virtù del ricominciamento. Perché deve rinascere ogni mattina, ogni ora, ogni minuto. Per <<tener duro>> bisogna  ricominciare a farlo infinite volte. I giovani, finché sono in famiglia, possono permettersi di essere impazienti, cioè di comportarsi come bambini protetti dai loro genitori. Il momento della verità viene quando incominciano a lavorare. Allora, con stupore, si accorgono che nessuno più corregge le loro intemperanze. E che ogni errore devono pagarlo. E, da quel momento, ogni progresso professionale dipende dalla loro capacità di osservare gli altri, di studiarli, di capirli. Siano essi i colleghi, i clienti o i dirigenti. E anche quando viene il momento di parlare, di dire le proprie ragioni, devono sapersi controllare, agire con prudenza e pazienza. L’impazienza crea sempre panico e disagio attorno a sé e, alla fine, si fa tutti nemici. Il padre padrone che, quando torna a casa, urla ad ogni ritardo, il capoufficio che sbraita con la segretaria, il dirigente che strapazza i suoi collaboratori. Costoro usano l’impazienza come strumento di dispotismo e avvelenano la vita e il lavoro degli altri. Chi vuole riuscire non può permettersi questi capricci. A cominciare dal venditore che deve porsi dal punto di vista del cliente, sempre gentile, sempre paziente. Ma anche il grande manager, se vuole ottenere il consenso dei suoi collaboratori, se vuole motivarli davvero, deve essere pronto ad ascoltarli, a parlare, a spiegare, a giustificare, come fa l’allenatore di una squadra. Deve mettercela tutta, e prodigarsi, prodigarsi; e ne deve avere di pazienza!

Tratto da “L’ottimismo” di Francesco Alberoni. Fabri editori- Corriere della Sera 1995.

Dott. Renato Porcelli

IL RUOLO DEL PADRE

Paternità: istinto o apprendimento sociale?



Nonostante il suo ruolo sia di fondamentale importanza, il padre ha ricevuto, per molto tempo, scarsa attenzione nell'ambito della letteratura e della ricerca contemporanea, tanto da essere definito “il genitore dimenticato” dalla teoria psicoanalitica. Diverso è stato per la madre, la quale per forza di cose ha permesso questo spostamento sullo sfondo della figura paterna per modalità tempi e sensazioni che si vanno a sviluppare durante la gravidanza.

Alcuni dati osservativi dimostrano che già a quattro settimane dalla nascita i neonati sono in grado di distinguere le qualità sensoriali del padre e della madre e di interagire conseguentemente. 
Resta scontato però, che il primo rapporto che si instaura tra neonato e genitori è quello con la mamma. Non a caso è lei a nutrirlo dal suo seno, è lei che, nella maggior parte dei casi, lo accudisce e gli cambia il pannolino. Il padre ha un ruolo di supporto a tutto questo durante la prima fase della vita del bambino, e questo lo far può apparire marginale e secondario.

Oggi si assiste sempre di più ad un precoce coinvolgimento del papà nell'esistenza del neonato e ciò può portare dei benefici tanto al bambino stesso quanto alla mamma. Molto spesso capita che il papà abbia poco tempo da trascorrere in casa e, di conseguenza, da dedicare al piccolo arrivato. Tuttavia, anche una limitata disponibilità è sufficiente per abituare il figlio alla sua presenza.

La mamma, grazie alla gravidanza, ha nove mesi di tempo per adattarsi alla nuova situazione: sente il movimento del bambino dentro la sua pancia, parla con lui, può toccarlo e coccolarlo. Per la mamma la coppia diventa famiglia sin dalla gravidanza, per lei è come se il bambino fosse già lì, come se avesse già trovato il suo posto e il suo spazio all'interno della coppia.


Per i papà la gravidanza è un passaggio più difficile da accettare, che dura nove mesi durante i quali egli può entrare in contatto con il bambino solo attraverso la mediazione della mamma e del suo pancione. Può dunque capitare che, alla nascita del piccolo, il neo papà si senta abbattuto e impaurito. Abitudini del sonno e della giornata modificate, difficoltà legate alla gestione quotidiana del neonato, il crescente carico di responsabilità e il timore che la propria compagna ceda la sua parte di “donna” al suo ruolo di mamma sono tutti elementi che fanno sì che il papà possa sentirsi a volte sopraffatto dagli eventi al punto da perdere il controllo delle priorità e chiudersi in un angolo in attesa di essere interpellato.

L’arrivo di un bambino può determinare nel papà un contrasto di sentimenti differenti. Ad esempio, è facile che provi una sorta di gelosia dovuta alla constatazione che egli non occupa più il posto privilegiato nel cuore della moglie la quale, in ogni caso, è intenta a riversare sul neonato buona parte delle sue premure. Nello stesso tempo, egli avverte un sentimento ambivalente nei confronti del figlio, in quanto, da un lato si sente escluso da alcune interazioni con lui che sono spesso riservate solo alla madre, e dall’altro il fastidio, ossia la rabbia, per il confronto continuo che si pone tra lui e la sua compagna, privilegiata in determinate funzioni.
Nei primi tempi, quando madre e figlio sono impegnati nella conoscenza e nell'adattamento reciproco, il papà può diventare l’aiuto ideale: ad esempio, al momento di addormentare il piccolo o l’essere vicino durante il cambio del pannolino. Il contatto con il corpo paterno, inoltre, farà abituare il bambino all'esistenza di altre braccia che non siano quelle della sola madre e gli permetterà di imparare a distinguere meglio la figura materna da quella paterna ed, in seguito, da quelle di tutte le altre persone con le quali il piccolo entrerà in contatto.

È ormai certo che gli uomini della società odierna stanno elaborando una diversa competenza genitoriale rispetto a quella di un  tempo. Oggi, infatti, tale competenza sembra affiancarsi sempre di più a quella materna in quanto si occupano anche delle cure primarie assieme alla madre, come allattamento con il biberon, cambio del pannolino, bagnetto. Un tempo la donna aveva il compito di mettere “al” mondo il figlio e il padre quello di metterlo “nel” mondo, di insegnarli a vivere nella società, le regole sociali e i valori. Il padre era la figura forte che proteggeva il figlio e lo accompagnava nel mondo insegnandoli a vivere e ad adattarsi alle richieste sociali.
Oggi, la società ha subito forti cambiamenti e nonostante si cerchi di equilibrare i ruoli genitoriali, i padri hanno ancora forti difficoltà a trovare il loro posto da subito.

La paternità, dunque, può essere considerata un istinto o un apprendimento sociale? La letteratura si è interrogata negli ultimi anni sulla possibilità che esista uno specifico istinto paterno uguale a quello materno. Dunque, la paternità si attiva nell'esperienza di divenire padre o si può pensare che esiste una predisposizione innata ad assumere tale ruolo e funzione?
Greenberg e Morris (1974) hanno dimostrato in alcune ricerche che nell'uomo l'engrossment,ovvero l’occuparsi interamente di qualcuno, l’essere assorbiti, preoccupati e interessati, va considerato un potenziale innato che si attiva con l’esperienza di diventare genitori ma che ha anche inevitabilmente un’interazione con gli aspetti culturali dell’ambiente e della società. Allo stesso modo, Forleo e Zanetti (1987) sostengono che, sia nel maschio che nella femmina, sia presente una predisposizione ad assumere comportamenti di cura nei confronti dei figli ma il condizionamento sociale e culturale devia spesso tale atteggiamento nell'uomo verso altre modalità di interazione, più desiderabili ed accettabili dall'ambiente.
Al contrario, secondo Erich Fromm(1956) nella paternità non esiste nulla di istintivo se non un “rapporto spirituale”. Dunque, l’amore paterno, a differenza di quello materno, sarebbe condizionato dall'appagamento delle  proprie aspirazioni.

Sembra utile, pertanto, fare una distinzione tra il concetto di ruolo e quello di funzione genitoriale e, nello specifico, paterna. Il ruolo è definito da un contesto sociale e culturale, è ciò che il padre sente di dover fare, è la sua risposta emotiva ai bisogni del figlio e la disposizione interiore precedente all'esperienza. La funzione paterna, invece, è precedente all'esperienza e al ruolo, anche se normalmente si attiva in ambedue. Nei primi anni di vita del bambino, ma non solo, il padre riveste effettivamente un’importante funzione: egli sostiene la relazione madre-bambino proprio grazie al suo modo di essere presente nella famiglia e può essere definito il regolatore della relazione empatica.

Concludendo, il padre non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino, ma è insieme a loro l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.


Dott.ssa Serena Sanzari




È IN ARRIVO UN FRATELLINO!

COSA SUCCEDE IN UNA FAMIGLIA QUANDO È IN ARRIVO UN ALTRO BAMBINO?


L’arrivo di un fratellino, o di una sorellina, rappresenta sempre un cambiamento nell'equilibrio di una famiglia. Questa alterazione coinvolge tutti, arrivando a coinvolgere i parenti più prossimi (nonni, zii, cugini…). Per il primo figlio è sempre un’esperienza contrastante, difficile da accettare e, in alcuni casi, traumatica. L’arrivo di un fratellino mina la sicurezza del bambino; è una minaccia di perdere abitudini, attenzioni e tutte le cose del suo quotidiano così come le conosce.

Prepararsi al grande evento
È sempre meglio che il bambino sia preparato all’arrivo del fratellino. A questo scopo durante la gravidanza è consigliabile iniziare a parlare con serenità dell’argomento di tanto in tanto, senza però farla diventare un’ossessione.
Per permettere al bambino di abituarsi all'idea può essere utile fargli incontrare dei neonati, portarlo con sé da un’amica che ha un figlio piccolo, leggere dei libri che trattano questo tema, coinvolgerlo nella preparazione del corredino o della cameretta.
La scoperta di un fratellino in arrivo è per il primogenito un’esperienza particolare, che molto dipende dall'età: prima dei 18 mesi i bambini non hanno ricordi consci (“amnesia infantile”), l’effetto di questa fase è l’impressione di aver sempre vissuto con un fratello o una sorella.
La prima paura, all'annuncio dell’arrivo di un altro bambino, sarà per il lui quella di non poter più essere amato come prima. Avrà bisogno di essere rassicurato dell’amore di mamma e papà per sentirsi meno ansioso e sopportare l’idea del nuovo arrivo, del quale istintivamente sarà geloso. Può essere utile, a questo fine, rivivere insieme i ricordi di quando era piccolo, riguardare le foto di quando è nato, spiegando così cosa sta accadendo nella pancia della mamma.
Nel caso in cui con l’arrivo del neonato il primo figlio dovrà cambiare stanza, è preferibile farlo un po’ di tempo prima così da permettere al bambino di abituarsi al cambiamento e interpretarlo come un segno del fatto che “è diventato grande” e non come un’invasione di campo del fratellino.

Come cambia la famiglia: diventare grandi
Le interazioni e le dinamiche affettive all'interno della famiglia si moltiplicano e si complicano: dalla triade mamma-papà-figlio si passa a doversi relazionare tra fratelli e tra questi e i genitori.
Avere dei fratelli o sorelle con cui poter interagire è una tappa fondamentale della crescita in cui i bambini imparano a rapportarsi con i loro coetanei. I fratelli litigano, si appoggiano, si aiutano, si imitano tra loro, imparano a cooperare, a negoziare, a competere e a creare un legame affettivo.  Tutto questo si struttura nel tempo. Lo scoppio della gelosia del primo figlio verso il nuovo arrivato, che lo ha spodestato dell’amore assoluto di mamma e papà, è invece da subito evidente.
Spesso i genitori si aspettano che il primogenito possa accogliere positivamente e con entusiasmo il fratellino, commettendo l’errore di considerarlo automaticamente “più grande”. Al figlio maggiore, che fino a poco tempo prima era considerato il piccolo di casa, viene ora chiesto di comportarsi da grande e di essere autonomo in alcune operazioni in cui prima veniva aiutato (ad es. spogliarsi e vestirsi, lavarsi i denti). Questo cambiamento può disorientare il bambino il quale potrebbe avere difficoltà a fronteggiare le nuove richieste dei genitori. I rimproveri e la disapprovazione da parte di mamma e papà possono accentuare il disorientamento e la sensazione di aver perso il loro amore. Queste sensazioni spingono il bambino a pensare che la strategia per mantenere l’attenzione dei genitori sia “ritornare piccolo”, proprio come il fratellino. In alcuni casi, il bambino rifiuta drasticamente l’imposizione del cambiamento manifestando la propria sofferenza attraverso l’interruzione della crescita.
Con la nascita di un fratellino i genitori si trovano a dover prestare molte attenzioni al nuovo nato. Il bambino, fino a quel momento è figlio unico e come tale è posto al centro dell’attenzione, destinatario esclusivo delle cure di mamma e papà. In questa fase, il bambino conosce l’esperienza della privazione (mancata soddisfazione di un bisogno ritenuto indispensabile). È molto importante aiutarlo a ridefinire un equilibrio, trascorrendo del tempo in più con lui, aiutandolo ad attenuare la sensazione di aver perso le coccole dei genitori e fornendo rassicurazione sul fatto che l’amore per lui non è cambiato.

La gelosia
La manifestazione di gelosia, in questa fase critica dello sviluppo del bambino, non è da considerarsi negativa, e per questo non è da reprimere e condannare.
La gelosia rappresenta una reazione alla perdita dell’esclusività del rapporto con le persone amate e della loro disponibilità affettiva. Il bambino rifiuta di dover dividere con un intruso l’affetto dei genitori, pretendendo di bastare affettivamente all'altro. La frase tipica che viene rivolta ai genitori è: perché mi hai fatto un fratellino? Non ti bastavo io?”.
I bambini più grandi, di 3 o 4 anni,  che hanno una capacità di pensiero già ben formata, adottano la strategia di diventare piccoli come il nuovo arrivato per conservare l’amore dei genitori. La gelosia si esprime allora attraverso atteggiamenti regressivi  o aggressivi. Il primogenito può diventare nervoso, irritabile, iperattivo. In alcuni casi possono esserci manifestazioni di regressione più preoccupanti: pretende di bere con il biberon, vuole attaccarsi al seno, soffre di enuresi notturna (pipì a letto), chiede che gli si metta il pannolino, presenta ansia da separazione.
I genitori possono svolgere un ruolo determinante nel superamento della gelosia.
Innanzitutto, è positivo lasciare libero sfogo alle emozioni, anche se si tratta di gelosia. Continuare a vivere tutti insieme momenti sereni aiuterà il bambino a superare la paura dell’abbandono e di non essere più amato. Il fratellino pian piano non sarà più avvertito come una minaccia e il bambino imparerà che, seppure non più esclusivo, l’amore dei genitori non è perso.
Un’ottima alleata del bambino è l’immaginazione. Fantasie distruttive sul fratellino permettono di scaricare ed esprimere la rabbia e l’aggressività scoprendo tuttavia che la realtà non verrà mutata.
Con lo sviluppo della capacità di identificazione il bambino imparerà a mettersi nei panni degli altri, provandone stati d’animo e vissuti. Potrà identificarsi nel fratello per averne i privilegi oppure nella mamma sentendosi gratificato nel fornire cure.
Infine, la condivisione di spazi e ambienti comuni, oltre a dar vita a degli scontri, farà nascere il senso di appartenenza: il fratellino pian piano non sarà più un intruso.
È molto più preoccupante un bambino indifferente, piuttosto che un bambino geloso.

“La gelosia è normale e salutare, nasce dal fatto che i bambini si amano, se non sono capaci di amore, non dimostrano nemmeno gelosia”
Winnicott


Riferimenti bibliografici:
- Fratelli e sorelle. Una malattia d’amore. Manuel Rufo
- L’arrivo di un fratellino…cosa accade? Dott.ssa M.R.Aloisio
- Educare.it da “Il Grillo parlante”, Anno II, n.9 (1999)


Dott.ssa Rossella Scelza




TRA FANTASIA E REALTÀ

Mamma, mi leggi una favola?






La favola che spesso il genitore legge al proprio figlio prima della “messa a letto” ha origini molto lontane: si tratta di racconti tramandati per secoli e per intere generazioni da narratori itineranti, esistenti ancor prima della nascita di Cristo, ed oggi sostituiti dalle figure genitoriali, per lo più la madre, e/o dai nonni. Alla narrazione è stato sempre attribuito un valore educativo di fondamentale importanza, essendo l’unico strumento a disposizione delle civiltà per divulgare la propria storia, le proprie tradizioni ed i propri miti. Non si tratta di racconti esclusivamente di tipo storico: sono spesso delle storie fantastiche che attraverso i loro personaggi e le loro avventure/disavventure ripropongono le caratteristiche della personalità, i vizi e le virtù degli uomini in un modo puramente fantastico, arricchendo così l’immaginario ed il mondo interiore dei piccoli ascoltatori. Il bambino viene, così,trasportato in un mondo “altro”, diverso da quello fisico quale la cameretta, ma dove ritrova le proprie difficoltà, i propri ostacoli e le proprie risorse.

La narrazione non è solo uno strumento educativo, è anche una modalità comunicativa fra la madre/narratore ed il bambino/ascoltatore, una sorta di canale attraverso cui trapassano le emozioni ed i sentimenti che caratterizzano la loro relazione affettiva e nella quale non vi è un “altro” giudicante ma un altro di cui il bambino può fidarsi ed affidarsi nel momento del bisogno. Tutto ciò permette al genitore di conoscere meglio il proprio figlio, il suo modo di pensare, di agire, i suoi bisogni più profondi.

Ogni favola inizia con il suo “… C’era una volta…”: i personaggi, gli eventi, le difficoltà, le sconfitte e le vittorie iniziano a prendere forma ed assumono le caratteristiche della realtà a cui il bambino partecipa attraverso il dispiegarsi di quattro fasi che richiamano i quattro tempi di una sinfonia. E’ nella creatività che il bambino riesce a trovare “l’arma vincente” per far proprie le sue azioni, i suoi comportamenti: identificandosi con i personaggi e le loro vicende, il bambino acquisirà una maggiore stima in se stesso poiché anche lui, come il suo eroe preferito, sarà capace di superare ogni ostacolo che incontrerà nel suo percorso di crescita. D’altra parte, riconoscerà in quegli stessi personaggi ed in quelle stesse vicende le proprie ansie, paure ed angosce e tutto ciò che caratterizza la vita di quel personaggio è esattamente ciò che vive il bambino.

La funzione principale di questi racconti, dunque, è quello di colmare temporaneamente nel piccolo lettore quelle lacune derivanti dalle poche esperienze vissute e permette al piccolo di meglio gestire il proprio mondo emotivo, scisso fra tendenze cattive e tendenze buone, pensieri distruttivi e/o aggressivi: il bambino deve riuscire ad accettare come propri e come assolutamente normali questi sentimenti.  Così, ciò che il bambino ha appreso potrà essere utilizzato nella vita quotidiana dinnanzi agli eventi negativi della vita.
Il bambino non vivrà mai una vita “tutta rosa e fiori”, come vorrebbe e desidererebbe il genitore: egli deve imparare a destreggiarsi di fronte agli ostacoli rispetto ai quali dovrà essere preparato. Identificandosi con il personaggio buono (l’eroe) il bambino comprende che le difficoltà sono del tutto normali nel suo percorso di crescita e che riuscirà a superarle.
“...E vissero tutti felici e contenti...”: non rappresenta soltanto il finale tanto atteso di quella storia ma rassicura il bambino sul lieto fine della sua stessa vita. Inoltre, è molto forte l’impulso morale che il bambino riceve dall'ascolto di questi racconti. Le fiabe fungono da esempio di “come va la vita”: il bene che sconfigge ogni male, l’amore che prevale sull'odio e tutto rappresenta la progressione del bambino nel suo percorso di crescita, anticipando vissuti e favorendo lo sviluppo della personalità, del carattere e dei loro valori. Anche il genitore che legge le favole riesce a “semplificare” il suo ruolo educativo in quanto riesce ad impartire al proprio figlio le giuste regole della vita senza usare l’imposizione.

Quali favole raccontare ai bambini e, soprattutto, a che età??
Per alcuni autori del XXI secolo, i racconti di favole erano ritenuti dannosi in quanto “riempivano la testa dei bambini con nozioni confuse di eventi meravigliosi e sovrannaturali”. Un tempo, questi racconti erano presentati ai bambini come delle possibilità della vita reale. Non c’è un’età ideale per raccontare le fiabe ai propri figli! Esse pongono il bambino di fronte ai principali problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte) “rendendoli semplicemente alla sua portata”.
E’ importante ascoltare i bisogni dei bambini: se la storia non gli interessa o lo annoia vorrà dire che il tema affrontato in quella fiaba non è significativo per il particolare momento della sua vita. Quando avrà preso tutto ciò che la favola gli può offrire oppure i problemi sono stati superati, richiederà egli stesso una seconda fiaba. E’ importante, dunque, seguire l’interesse del bambino, non guidarlo: il genitore deve appassionarsi alla storia raccontata come se fosse la favorita di entrambi e i pensieri del bambino devono essere ignoti così da esplicitarli attraverso la favola: solo affrontando le sfide della vita e superandole essi potranno arrivare alla propria indipendenza e realizzazione, così come l’eroe ottiene il suo regno e la felicità dopo aver vinto le battaglie che si presentano durante il cammino.


Dott.ssa Emma Avena



NON INSEGNATE AI BAMBINI




Un bambino risponde «grazie» perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.
Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te.
Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.
Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è «aiutami a fare da solo».
Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà.
Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.
Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.
Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori. L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.«Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così» è una frase da non dire mai.
Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.
Un bambino troppo pulito non è un bambino felice. La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.
Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.
Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un «questo non lo so» se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.
Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.
Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.
Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.
Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

(Giorgio Gaber “Non insegnate ai bambini”)

COS'È L'INTELLIGENZA EMOTIVA?

L’INTELLIGENZA EMOTIVA NELL'AMBIENTE LAVORATIVO E LA SINDROME DEL BURNOUT.




L’intelligenza emotiva è definita come la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali.
La vita mentale dell’uomo è costituita da due modalità di conoscenza che interagiscono tra di loro: la mente razionale, caratterizzata da una modalità di comprensione cosciente e consapevole che ci permette di ponderare e di riflettere, e la mente emozionale, impulsiva e illogica.
L’influenza delle emozioni sulla mente razionale è spiegabile con l’evoluzione del cervello umano. Le basi anatomiche delle emozioni si possono rintracciare nelle strutture più primitive, il tronco cerebrale, da cui poi si sono evolute le aree del cervello pensante: la neocorteccia. Le aree emozionali quindi, sono collegate a tutte le aree della neocorteccia influenzandole, ragion per cui le emozioni sono il costante sottofondo delle esperienze quotidiane.
L’intelligenza emotiva è strettamente associata alla competenza personale e a quella sociale. La prima determina il modo in cui controlliamo noi stessi e si basa su alcune caratteristiche:
consapevolezza di sé, cioè la capacità di riconoscere i nostri stati interiori. Comporta l’auto-valutazione accurata delle proprie abilità, dei propri punti di debolezza e la fiducia in sé stessi riconoscendo il proprio valore e le proprie capacità.
- padronanza di sé che si esprime nell'autocontrollo degli impulsi e dei sentimenti per gestire situazioni stressanti e angosciose che si traduce nell'acquisizione di un atteggiamento flessibile nelle varie circostanze.
-motivazione, ultima abilità della competenza personale, è caratterizzata dall'insieme delle tendenze emotive che guidano e sostengono la realizzazione degli obiettivi.
 La competenza sociale è il fattore che determina la gestione delle relazioni interpersonali la cui base è costituita da
-empatia, cioè la capacità di comprendere  lo stato d’animo altrui
-abilità sociali intese come la capacità di saper guidare le emozioni di altre persone attraverso l’uso di tattiche persuasive efficienti veicolate da una comunicazione chiara e convincente.
Queste abilità sono particolarmente importanti e particolarmente richieste nell'ambito lavorativo in cui bisogna sviluppare anche capacità per negoziare e gestire situazioni di disaccordo, collaborazione  e cooperazione per il raggiungimento di obiettivi comuni.  Le capacità intellettuali e tecniche seppur rappresentano i requisiti di base non garantiscono il raggiungimento di risultati ottimali, quando infatti in una organizzazione manca l’intelligenza emotiva si realizza il fenomeno del burnout definito come sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale. Il sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, una sorta di inaridimento emotivo, si ripercuote sull'allontanamento e sul rifiuto nei confronti di coloro che ricevono o richiedono la prestazione professionale. Il fenomeno è più frequente in tutte quelle professioni che richiedono un’elevata implicazione relazionale e le cause comuni sono riconducibili all'organizzazione disfunzionale, la scarsa o inadeguata retribuzione, sovraccarichi di lavoro, insufficiente autonomia decisionale. Il burnout è una sindrome vera e propria caratterizzata da sintomi che investono la sfera somatica, ulcere, cefalee, disturbi cardiovascolari e la sfera psicologica, umore depresso bassa stima di sé, senso di colpa, irritabilità, coinvolge cioè  il mondo emozionale della persona.
Solitamente l’insorgenza del fenomeno segue 4 fasi:
1)ENTUSIASMO IDEALISTICO che dipende dalle motivazioni consapevoli, inconsce e dalle aspettative che hanno indotto gli operatori a scegliere quel tipo di lavoro.
2)STAGNAZIONE, il super-investimento iniziale lascia il posto ad un graduale disimpegno dovuto al fatto che il lavoro non soddisfa i bisogni del lavoratore e la profonda delusione determina la chiusura verso l’ambiente e i colleghi.
3)FRUSTRAZIONE a causa della profonda sensazione di inutilità per non essere in grado di rispondere ai reali bisogni dell’utenza. L’operatore vive un senso di perdita , svuotamento e crisi delle emozioni e della creatività.
4)APATIA che caratterizza la vera e propria morte professionale.
La visione distorta secondo cui le professioni d’aiuto fanno beneficenza, ha contribuito allo sviluppo di un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei confronti degli utenti che in automatico assumono lo status di ”rappresentanti della malattia” e quindi uno stato d’inferiorità. Tutto ciò porta l’operatore a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni e motivazioni con conseguenti sentimenti di disagio e impotenza. C’è da dire inoltre che il burn-out non è affatto un problema personale che riguarda solo chi ne è affetto, ma coinvolge l’intera organizzazione dei servizi, degli utenti della comunità.
L’intelligenza emotiva quindi, gioca un ruolo fondamentale perché permette di contattare le proprie emozioni per affrontare in modo efficace e ottimale le difficoltà della vita, permettendo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo.  Tutto ciò all'interno della relazione consente all'operatore di essere empatico e sensibile alle reali esigenze dell’utente.Nel burnout   esiste quindi la difficoltà a misurarsi con le proprie emozioni e quindi con il riconoscimento del problema, con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto alla vita.

Occorre provare ad ascoltare, a guardarsi dentro, a recuperare la propria motivazione e la capacità di alimentare i propri desideri.

Dott.ssa Manuela Fersini

LA VITA DENTRO UNA STANZA

“Gli atomi entrano nel mio cervello,
eseguono una danza e se ne vanno;
atomi sempre nuovi ripetono la stessa danza, ricordando quella di ieri” 
Feynman R.P

Il fenomeno degli Hikikomori, molto sviluppato nella società giapponese, ha fatto la sua comparsa solo di recente in Europa e in Occidente, e si sta diffondendo a macchia d’olio interessando sempre più giovani anche in Italia.


Il termine Hikikomori deriva dal giapponese ”hiku”, tirare, e “komoru”, ritirarsi, cioè “stare in disparte,isolarsi”.
Gli Hikikomori, hanno la tendenza a ritirarsi nella propria stanza senza più uscirne per lunghi periodi di tempo. Si tratta di un volontario isolamento che può durare dai 6 mesi ad alcuni anni, in cui non si hanno contatti con l’esterno, vengono abbandonati gli amici e ogni forma di comunicazione con la famiglia. 
Questo fenomeno coinvolge soprattutto i giovanissimi anche se non risparmia personepiù grandi. Ad essere principalmente coinvolti sono i soggettidi sesso maschile, con un estrazione sociale medio-alta, e uno stile di vita sedentario. Gli Hikikomori dedicano il proprio tempo ai fumetti e al pc, invertono il ritmo sonno-veglia, e consumano il cibo in solitudine,evitando ogni 
contatto con l’esterno. Ritirandosi dalla società si ritirano anche dalle normali attività quotidiane;abbandonano la progettualità, hanno maggiori possibilità di sviluppare dipendenza da internet e di manifestare espressioni di violenza e aggressività.

Le cause del fenomeno in Giappone
Le cause di questo fenomeno allarmante sono da ricercare all'interno della società e della cultura giapponese.
Spesso il primo segnale di un probabile Hikikomori è rappresentato dal rifiuto scolastico. In Giappone il sistema scolastico è molto rigido e competitivo; molte scuole non prevedono spazi relazionali né attività fisica, e spesso si studia anche 12 ore al giorno. La percezione di questa forte pressione all'autorealizzazione spinge chi non ha le competenze e la motivazione per reggerla a rifugiarsi nel mondo sicuro della propria stanza.
Un’ulteriore causa dell’abbandono scolastico è rappresentata da una sorta di fobia legata all'aver vissuto esperienze di bullismo, fenomeno in Giappone particolarmente diffuso.
Non sono, inoltre, da sottovalutare le dinamiche familiari.Uno stile educativo caratterizzato da eccessivo attaccamento e iperprotettività, genera nei ragazzi un sentimento di inferiorità e inadeguatezza rispetto alle aspettative troppo elevate dei genitori.La paura di non riuscire a raggiungere ciò che gli altri si aspettano li spinge a chiudersi in se stessi. Spesso nelle famiglie giapponesi la figura paterna è assente a causa dei ritmi di lavoro insostenibili. La mancanza del padre non solo priva il bambino di una figura genitoriale fondamentale, ma favorisce anche lo svilupparsi di un legame di dipendenza tra madre e figlio (in Giappone “amae”) che si riscontra in molti casi di Hikikomori.
Infine, i ritmi estenuanti e le difficoltà della società moderna hanno contribuito a far nascere in questi ragazzi un forte sentimento di rifiuto verso il mondo esterno. L’Hikikomori è infatti un ragazzo che, per scelta o per limiti caratteriali, decide di vivere isolato dalla società.

Differenze socio-culturali tra Giappone ed Europa
Il fenomeno Hikikomori giapponese e quello europeo presentano molte differenze socio-culturali. La cultura giapponese è caratterizzata dalla presenza di regole eccessivamente rigide alle quali i giovani si ribellano rifugiandosi nella propria casa, come forma di protesta silenziosa. In Occidente, invece, è l’assenza di un sistema coerente di regole sia sul piano sociale, relazionale che lavorativo a creare nei giovani la percezione di sentirsi inadeguati, e non riuscendo a trovare il proprio ruolo nel mondo, tendono a rifugiarsi in una realtà più rassicurante.
Un’altra differenza fondamentale tra Oriente e Occidente è che gli Hikikomori europei fanno un uso molto massiccio ed eccessivo delle nuove tecnologie, mantenendo un contatto con l’esterno tramite internet. Per tale ragione questo fenomeno viene spesso associato e confuso con il disturbo da dipendenza da internet (IAD). La comunicazione virtuale per gli Hikikomori europei rappresenta l’unica forma di relazione.

Hikikomori e Dipendenza da Internet
Spesso la dipendenza da internet viene indicata tra le cause dell’isolamento. Ciò non è sempre corretto. Molti Hikikomori infatti non usano affatto le nuove tecnologie, o comunque non sviluppano un rapporto di dipendenza da esse. In questi casi l’isolamento è totale.
Hikikomori e Dipendenza da internet (Internet Addiction) sono quindi due cose diverse, ma che allo stesso tempo possono incrociarsi.
L'isolamento e la solitudine possono spingere l'individuo a cercare nella rete l'unico mezzo di contatto con il mondo esterno:in questo caso, l'uso di internet è conseguenza e non causa dell'isolamento. Al contrario, se è l'abuso di internet che spinge l'individuo verso un graduale allontanamento dalla società, allora si può parlare di Dipendenza da Internet.
In Italia, rispetto al Giappone, questa differenza è meno netta e i due fenomeni appaiono spesso come due facce della stessa medaglia.

Quando si può parlare di Hikikomori?
Chi passa ore al computer, per esempio per studio o lavoro, non può essere considerato in pericolo. Il fattore discriminante è legato al rapporto che la persona mantiene con il mondo esterno. Il campanello d’allarme si ha quando il virtuale diventa una via di fuga dalla realtà.
Gli Hikikomori sono giovani che rifiutano qualsiasi contatto che non sia mediato da un computer ed evitano di uscire dalla propria stanza per mesi o per anni.
Non esiste ancora una collocazione di questo disagio all’interno dei manuali diagnostici. Tuttavia,i criteri individuati sono: il ritiro sociale da almeno 6 mesi, la riduzione delle relazioni e incapacità di comunicazione, l’inversione del ritmo sonno-veglia, il rifiuto scolastico o lavorativo e la noia. Tale fenomeno può presentarsi in soggetti depressi o con comportamenti ossessivo-compulsivi.

Il ritiro dalla società avviene gradualmente, per cui è importante osservare i cambiamenti del comportamento:i ragazzi possono apparire infelici, diventare insicuri, timidi, arrabbiati, iniziare a parlare di meno e a non frequentare più i loro amici.
E’fondamentale un intervento tempestivo per evitare l’emergere di ulteriori complicazioni e patologie che spesso si associano al fenomeno dell’Hikikomori, mirando a migliorare le relazioni e le capacità di interagire,attraverso un percorso terapeutico che possa produrre esiti positivi.

“Hikikomori è una svolta inaspettata in un sentiero diventato insidioso, un luogo di difesa dove tenere nascosto il proprio Sé stanco e inadeguato, un riparo segreto” 
Carla Ricci

- Carla Ricci, Hikikomori: narrazioni da una porta chiusa (2009)

Dott.ssa Rossella Scelza