martedì 29 settembre 2015

ANTWONE FISHER






Antwone Fisher è un film autobiografico del 2002, ispirato alla storia vera di Antwone Fisher, un marinaio di colore che presenta seri problemi di autocontrollo e che dopo l’ennesima esplosione di collera, culminata con un’ aggressione nei confronti di un collega, viene affidato alla supervisione dello psichiatra Dott.re. Jerome Davenport . Quest’ultimo inizia a scavare nel passato di Antwone, portando alla luce una storia turbolenta, dalla nascita in un istituto penitenziario femminile, all’abbandono in un orfanotrofio, fino all’adozione da parte di una famiglia molto religiosa, dalla quale dovette subire maltrattamenti fisici, psicologici e anche abusi sessuali. Nel film la storia di Antwone andrà ad intrecciarsi con quella del Dott.re Davenport, che si troverà ad affrontare i problemi del proprio rapporto di coppia, a causa dell’impossibilità ad avere dei figli. Grazie all’evolversi di questo rapporto Antwone comprenderà l’importanza di dover ricercare le proprie radici, e quindi la sua famiglia d’origine per ricomporre il proprio passato ed eliminare questo pesante fardello che ancora porta con sè.
Nel tentativo di estrapolare le tematiche salienti del film emergono vari spunti a sfondo psicologico. Primo fra tutti il tema della rabbia, che condiziona il protagonista dall’inizio del film, infatti egli viene ammonito proprio per un’ esplosione di rabbia nei confronti di un collega. Ed è per questo che viene affidato alla supervisione dello psichiatra, che inizialmente trova un muro alzato dal protagonista, in quanto Antwone non risulta essere molto remissivo nei confronti della terapia. Conseguentemente a ciò il protagonista manifesta nuovamente scoppi di collera, ed è soltanto grazie all’evolversi della terapia che il protagonista riuscirà a risolvere i propri problemi.
Altro elemento importante del film è il tema della violenza, che il protagonista subisce durante l’infanzia sia a livello fisico, che a livello psicologico, e come essa condiziona lo stato attuale di Antwone, manifestando appunto la rabbia. Ed importante è anche la violenza sessuale subita dal protagonista, che dunque ci conduce anche al tema del trauma che emerge anche nel disagio di Antwone ad avere un rapporto intimo con le donne.
Attenzione merita anche il rapporto terapeutico che si crea tra Antwone e il Dott.re Davenport, che oltre a portare alla risoluzione delle problematiche del protagonista, mette alla luce i conflitti irrisolti che ci sono tra il Dott.re Davenport e la moglie, a causa dell’impossibilità della coppia ad avere figli. Un rapporto dove il protagonista ricerca sicuramente la figura genitoriale che non ha mai avuto, ma allo stesso tempo è Antwone che per il Dott.re ricopre il ruolo di figlio e fa riemergere i vecchi conflitti personali e di coppia. Infatti nel film inizialmente è il protagonista che si presenta in casa del Dott.re, che è in un primo momento titubante, ma dopo lo accoglie e lo invita ad unirsi alla sua famiglia per festeggiare il ringraziamento.

Quello che alla fine si presenta come elemento risolutore del film, che darà dunque la possibilità ad Antwone di proseguire nella propria vita è il tema del perdono. Come si vede nel film egli accoglie il consiglio del Dott.re Davenport e va alla ricerca delle sue origini, della sua famiglia. Ed è solo grazie a questo viaggio nel proprio passato che il protagonista riuscirà a perdonare se stesso e potrà andare avanti nella propria vita.

Dott.ssa Stefania Spallino
Laureata in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università G.D'annunzio Chieti-Pescara e tirocinante presso la Obiettivo famiglia Onlus


giovedì 3 settembre 2015

TROPPO AUTOCONTROLLO FA MALE. EMOZIONI, REPRESSIONE E SALUTE PER IL NOSTRO BENESSERE PSICO-FISICO

L’individuo equilibrato è un pazzo.
Charles Bukowski



Lo dico o non lo dico? Mi trattengo o mi innervosisco? Mostro la paura o faccio come se non mi toccasse in nessun modo? Sono scelte che facciamo tutti i giorni, nelle relazioni come sul lavoro, con i figli e i colleghi ma anche con chi incontriamo per piccoli momenti della giornata, in strada o al supermercato.
Non è una scelta banale manifestare o meno le proprie emozioni. Ogni nostra scelta ha una precisa ripercussione a seconda del motivo che l’ha messa in moto, della situazione in cui è stata generata e della relazione che intercorre con chi ne è, in qualche modo, l’artefice esterno. Tutto quello che significa una singola emozione lo possiamo sentire, vivere e patire sul nostro benessere mentale e fisico.


Se da una parte si elogia l’autocontrollo, non lasciandosi prendere dall’istinto, ma modulando quanto proviamo, dall’altra è bene non tenere sempre tutto dentro. Come sapeva già bene Publio Ovidio Nasone nelle sue “Metamorfosi”, “Medio tutissimus ibis” che, tradotto, vuole dire semplicemente che si cammina più sicuri nel mezzo. Perché? Se l’autocontrollo aiuta a gestire quello che proviamo, evitando eccessi negativi e spiacevoli legati al semplice impulso, non dare MAI voce alle proprie emozioni può essere ancor più pericoloso per la salute nel suo complesso.

Le emozioni sono infatti tantissime e ci servono tutte!

Le emozioni sono naturali e servono all’ uomo per capire cosa sta provando, per salvaguardare il suo benessere e, in molti casi, la sua stessa vita. Pensiamo per esempio alla paura che ci segnala dove non andare, cosa ci spaventa, che ci evita posti pericolosi e ci mette in guardia per la nostra sopravvivenza. Per questo le emozioni sono, più spesso di quanto vorremmo, un’ arma, la sfida è riuscire ad usarle per noi, per conoscerci, per capirci, per ascoltarci e non contro di noi. Trasformarle in un aiuto significa prima di tutto riconoscerle e capire quando è il caso di darne manifestazione o meno e in che misura.  Certamente, se si vive in balia delle emozioni, diventa tutto molto complicato. Non si riesce ad entrare in relazione con gli altri se si lascia parlare solo l’impulso e questo non serve a molto nelle relazioni. Un efficace controllo delle proprie reazioni non significa però evitare istinto o non dare ascolto o valore a quanto si sente, anche di pancia.  Benissimo cercare la calma, sfogare la rabbia magari anche con il movimento fisico, giocare con ironia su quanto ci accade, tentando di non dare troppo peso alle emozioni spiacevoli ma, ogni tanto, è bene far sentire quello che viviamo, dargli spazio all’ esterno, vivere la propria emozione anche se forte, esprimere la paura, sfogare la rabbia, meglio se con il diretto interessato.


Il modo poi farà il resto. Certo non si tratta di dare libero sfogo ma di non trattenere, non reprimere e accettare invece quanto si vive. Ne vale non solo il nostro equilibrio psicologico ma anche la nostra salute.  E’ sempre più accreditata, infatti, la tesi per cui  tirare fuori le proprie emozioni previene diversi problemi di salute, come malattie cardiocircolatorie e non ultime, come mostrano diverse ricerche, patologie tumorali, il cancro. L’equilibrio mente-corpo ci influenza, come si può leggere sul libro “La ricerca psicologica sul cancro. Teorie psicobiologiche, psicogenetiche e psicosociali” (1992) di Gabriele Chiari e Maria Laura Nuzzo, dove vengono affrontati i diversi elementi che vanno ad influire sull’ insorgere delle diverse malattie.
Se non esprimiamo rabbia, paura, eccitazione, tristezza possiamo incorrere in malattia renali, pressione alta, tumori. Possiamo persino rendere la nostra vita in media più breve di quella degli altri, quelli che urlano, mostrano, dicono quello che provano. Ce lo dice uno studio del 2012 pubblicato su Health Psychology dal titolo “The costs of repression: A meta-analysis on the relation between repressive coping and somatic diseases”, realizzato dagli psicologi tedeschi  Marcus Mund e Kristin Mitte, dell’Università di Jena. Questi ricercatori hanno condotto una analisi su 6000 soggetti con l’obiettivo di valutare cosa succede quando si trattengono le emozioni  come rabbia e paura, controllando l’ambiente e le sensazioni. Cosa succedeva? Da fuori sembrava che le persone che reprimevano le emozioni fossero molto padrone della situazione, ma da dentro i segnali parlavano di altro, battito accelerato in primis. Questo, sembrerebbe far supporre che chi manifesta le emozioni in maniera chiara, abbia una prospettiva di vita di 2 anni maggiore rispetto a chi tiene dentro e controlla tutto.  Un ulteriore conferma dell’importanza di dare spazio alla manifestazione di quello che si prova e di come il controllo, se estremo, sui propri vissuti non sia un alleato sempre positivo e amico.

Come ci dobbiamo comportare quindi? Ascoltiamo le emozioni e impariamo a riconoscerle. Non sminuiamo il loro significato e quello che ci raccontano le nostre reazioni fisiche. Da una parte aiuta sfogarsi, un amico, il movimento fisico, rilassarsi, respirare, trovare strategie in armonia con noi stessi per affrontare e allontanare quanto ci fa star male, rabbia, paura o tristezza. Dall’altra è bene dare spazio a quello che si vive per poter capire cosa sta accadendo e dargli significato, sciogliendo il nodo dell’esperienza dolorosa o rabbiosa in maniera utile per il futuro e per il proprio rapporto con sé stessi e gli altri. Una litigata possiamo superarla facendo una passeggiata “sbollendo” la rabbia in molti modi diversi che ci aiutino a governarla e mandarla via ma se accade spesso, se l’emozione diventa sofferenza cronica e ci si sente male in quella relazione allora forse è meglio fermarsi, comprendere e trovare una soluzione che tenga in considerazione cosa si prova. Quindi viene da dire sia un bene mostrare emozioni, reagire anche in maniera esagerata secondo quanto si è soliti, ma è sempre bene ricordare di farlo comunque con equilibrio. Una sfida da affrontare anche per star meglio in salute.

Di 
Marzia Cikada

https://pollicinoeraungrande.wordpress.com/2014/05/29/troppo-autocontrollo-fa-male-emozioni-repressione-e-salute-per-il-nostro-benessere-psico-fisico/

COME LA LUCE INFLUENZA LE EMOZIONI




Lo spettro della luce ambientale non influisce sull'umore solo a lungo termine, attraverso l'alterazione dei cicli circadiani, ma ha anche un effetto immediato sulla percezione delle emozioni.
La luce e la sua composizione cromatica hanno effetti immediati sull'elaborazione cerebrale delle emozioni: a provarlo è una ricerca condotta da un gruppo di psicologi e neuroscienziati delle Università di Liegi, di Ginevra e del Sussex, che ne riferiscono in un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Science (PNAS).

 E' noto da tempo che la luce è un fattore in grado, sul lungo termine, di modulare l'umore, tant'è che la terapia con "bagni di luce" rappresenta una scelta consolidata nel trattamento del cosiddetto disturbo affettivo stagionale, o SAD, una sindrome con manifestazioni depressive che si presenta ciclicamente a partire dall'autunno per perdurare l'intero inverno.


Questo tipo di risposta a lungo termine alla luce, si sviluppa attraverso un'alterazione dei ritmi circadiani e interessa la temperatura corporea, il ritmo sonno veglia, ma anche il sistema di allerta e la concentrazione. Studi recenti hanno anche mostrato che questa risposta "non classica" alla luce - ossia non correlata alla visione di immagini, è mediato da un sistema di fotorecettori particolarmente sensibile alla lunghezza d'onda della luce blu ( intorno ai 480 nanometri), a differenza della via "classica", più sensibile alla luce verde (intorno ai 550 nanometri), e che coinvolge alcune cellule gangliari dette ipRGC (intrinsically photosensitive retinal ganglion cells), che esprimono come pigmento fotosensibile la melanopsina.

 Per meglio comprendere questi meccanismi i ricercatori hanno inteso studiare se la luce possa influenzare la normale attività di elaborazione cerebrale dell'informazione anche "in acuto", ossia sul breve termine.

 A questo scopo i ricercatori hanno registrato l'attività cerebrale di un gruppo di volontari, di entrambi i sessi, ascoltavano "voci arrabbiate" e "voci neutrali" mentre erano esposti a una luce blu o verde. La luce blu non solo aumentava la risposta allo stimolo emotivo nell'area destinata all'elaborazione della voce nella corteccia prefrontale e nell'ippocampo, regione centrale per i processi mnemonici, ma portava anche a una più fitta interazione fra quell'area vocale, l'amigdala, una regione chiave per la modulazione delle emozioni, e l'ipotalamo, che ha un ruolo per la calibrazione dei ritmi biologici sulla luce diurna. Ciò dimostra, osservano i ricercatori, che la luce blu influenza l'organizzazione funzionale del cervello. (gg)

DA: http://www.lescienze.it/news/2010/10/20/news/come_la_luce_influenza_le_emozioni-554200/

LA METEREOPATIA: IL METEO DELL'UMORE

La metereopatia: il meteo dell’umore

Ecco che cosa ha portato il clima negli ultimi mesi: pollini, piogge improvvise e torrenziali, freddo persistente seguito da caldo afoso e l’organismo si adatta, o quanto meno cerca di trovare un proprio adattamento in un ambiente dal clima sempre più imprevedibile. Come può il clima influire sul nostro sistema immuno endocrino  e causare alterazioni del tono dell’umore note come metereopatia?
Metereopatia  è un termine utilizzato per indicare la correlazione esistente tra gli eventi atmosferici, quali ad esempio un improvviso innalzamento dell’umidità, e un disturbo esperito dal soggetto.


Intorno agli anni ’30 si è iniziato a studiare questo fenomeno e negli anni ’70 si è scoperto come il10-15% della popolazione soffrisse di disturbi legati alle variazioni climatiche. Oggi, i soggetti metereopatici sono il 25-30% della popolazione mondiale (Lopez del Val LJ, Rubio E, Calatayud V, Lopez del Val JA, Sanchez E 1986). Tale indice di incidenza risulta particolarmente allarmante, se si parte dal presupposto che vi sia una reale corrispondenza tra tale sindrome ed i principali problemi della nostra era: l’inquinamento e lo stress.

Fino ad oggi questo fenomeno non è stato preso in seria considerazione ed è stato spesso sottovalutato proprio da familiari ed amici di coloro che soffrono dei cambiamenti climatici. Tuttavia, la metereopatia viene considerata una vera e propria malattia dalla comunità scientifica.

In cosa consiste la metereopatia?
La metereopatia indica un insieme di disturbi a livello fisico e psichico di tipo neurovegetativo che si manifestano in certe condizioni metereologiche. Si tratta di un disturbo caratterizzato da una serie di sintomi  e di reazioni patologiche che si manifestano in seguito ad un graduale o improvviso cambiamento climatico in una specifica area geografica. Con fattori metereologici si intendono la temperatura, l’umidità relativa, la velocità del vento, la pressione atmosferica, la pioggia e le tempeste con i tipici effetti da esse prodotti : ionizzazione, stato elettrico e turbolenza. Gli effetti prodotti da tali agenti atmosferici sono maggiormente evidenti quando più fenomeni (pioggia, umidità, freddo o caldo improvvisi) sono coinvolti e si manifestano nello stesso momento.
I principali sintomi della metereopatia sono mal di testa, deflessione del tono dell’umore (depressione), ipotensione, affaticabilità, difficoltà di concentrazione e di memorizzazione, insonnia.


Chi sono i metereopatici?

Le persone che risultano maggiormente sensibili ai cambiamenti climatici sono coloro che risultano essere più instabili a livello emotivo, che fronteggiano la vita con una gamma di emozioni varia e di rilevante intensità, a volte a livelli scarsamente giustificati dalla realtà dei fatti. Si tratta di persone con disturbi a livello del sistema neurale, ansiose e difficilmente adattabili a contesti ed eventi nuovi, che non riescono a funzionare normalmente a livello psicosociale quando si manifestano cambiamenti climatici.

 Generalmente il metereopatico sviluppa un malessere diffuso prima che si verifichino cambiamenti a livello climatico, dimostrando di esperire una fase acuta che corrisponderebbe al mutamento del clima ed una rapida attenuazione seguita da una scomparsa dei sintomi con la fine delle variazioni climatiche.

Ad oggi l’instabilità del sistema neurale risulta una problematica in aumento a causa dell’incremento di negativi che possono pesare nella vita quotidiana, quali ad esempio: stress, lutto, divorzio, difficoltà a trovare lavoro o problematiche legate al pensionamento, inquinamento e traffico, competitività a livello professionale.


Quali sono le risposte del nostro corpo ai cambiamenti climatici?

Di solito all’ incirca un giorno o due giorni prima dell’arrivo di una perturbazione climatica, le persone particolarmente sensibili ed instabili a livello neurale possono esperire svariati sintomi che sommati tra loro costituiscono il disturbo metereopatico e che investono e coinvolgono il soggetto a livello psicosomatico.  Essi sono: ipertensione, aumento di depressione, mal di testa, desiderio di rimanere in casa, aumento del dolore ai muscoli ed alle articolazioni, difficoltà a respirare e pesantezza di stomaco. Possono presentarsi anche disturbi dell’umore, irritabilità e problemi a livello cardiovascolare come palpitazioni o dolori allo sterno. Questi sintomi tendenzialmente permangono per qualche giorno, per andare diminuendo man mano che il tempo si stabilizza o cambia nuovamente, grazie ad un processo di adattamento attuato dal nostro organismo.


Esistono svariate forme di metereopatia: le anemopatie (ad esempio la sindrome dello scirocco, quella del Phon e così via), le sindromi dei periodi temporaleschi, quelle del fronte ciclonico, quelle secondarie ( acutizzazioni di sintomi a livello fisico correlate a cambiamenti climatici).

Le metereopatie più diffuse sono quelle connesse alla comparsa di cambiamenti climatici inerenti forti venti e temporali, accompagnati da una variazione della pressione atmosferica, da pioggia, nuvolosità e umidità.

di Gaia del Torre
http://www.lorenzomagri.it/metereopatia/


ORIENTAMENTO: SCEGLIERE LA SCUOLA E IL LAVORO CHE FA PER NOI


L’Orientamento Scolastico e l’Orientamento Professionale
La parola Orientamento - in questo contesto - si riferisce all’Orientamento scolastico e professionale. Non significa soltanto scegliere quale scuola, università o lavoro vogliamo fare, ma ha a che fare con la determinazione e la consapevolezza delle scelte nella nostra vita.
Affrontare un cambiamento. 
Alcune volte può essere particolarmente stressante prendere decisioni, perché non è sempre facile capire cosa desideriamo veramente. A volte non ci sentiamo pronti e sicuri per prendere delle decisioni sul nostro futuro. L’orientamento è utile ogni volta che una persona si trova a dover prendere una decisione, ad affrontare un cambiamento. Che sia dopo le scuole medie e superiori o nella scelta del lavoro, può aiutare a prendere una decisione non sempre facile. L'orientamento riguarda, quindi, sia i ragazzi che devono scegliere o vogliono cambiare scuola, sia le persone adulte che molto spesso, oggi soprattutto, si trovano a dover cambiare lavoro e a essere "flessibili".
L'Orientamento Professionale. 
Prendiamo il caso di Arrigo, 60 anni. Dopo avere lavorato per 30 anni nella stessa azienda come magazziniere, si ritrova senza lavoro. Si propone ad altre ditte della zona, ma non ci sono posti. Da principio si scoraggia: «Ma chi mi assume più alla mia età! Che lavoro vado a fare? Non posso mica prendere su e trasferirmi! I ragazzi vanno a scuola...». Preoccupato per il futuro della sua famiglia, decide di consultare uno Psicologo dell’Orientamento. Insieme a lui Arrigo ripercorre con la mente gli ultimi anni della sua vita e viene fuori che, per passione, da tempo si dedica al restauro di mobili antichi, per sé e per alcuni amici. Durante i colloqui ritrova la sicurezza, capisce che il restauro è la sua vera grande passione e piano piano trova la motivazione per "provarci". Dopo aver analizzato insieme allo Psicologo dell'orientamento le reali possibilità sul mercato, Arrigo si informa: l’ultima bottega di restauro del paese ha chiuso 3 anni fa, quella più vicina è a 45 km. La moglie, vedendolo così determinato, lo appoggia e decidono di aprire un negozio. Arrigo ha capito che la sua non è solo una passione da hobbista e il successo che ha avuto in seguito il suo negozio gli ha dato ragione.


Lo Psicologo dell'Orientamento: Scuola e Lavoro
Lo Psicologo dell'orientamento non si limita a fornire consigli, ma mette la persona nelle condizioni di poter scegliere in modo autonomo, partendo dalla comprensione di se stessa, dei propri talenti, dei propri interessi e valori. È un percorso che consiste nell’accompagnarla a capire cosa vuole fare veramente, quali competenze e capacità ha per raggiungere i propri obiettivi. Poi mette in relazione tutto questo con le reali possibilità presenti in quel momento. Bisogna infatti analizzare anche il contesto in cui si è immersi per capire se quello che desideriamo è "fattibile" e se le nostre scelte si potranno rivelare fruttuose.
Quello che ci propone lo Psicologo dell'orientamento è una crescita personale, un percorso per diventare più forti e maturi, per imparare a:
  • conoscersi, capirsi e decidere per se stessi;
  • capire che cosa possiamo migliorare per raggiungere i nostri   obiettivi;
  • analizzare bene il contesto, ostacoli e possibilità, prima di fare una scelta scolastica o lavorativa;
  • mettere in relazione le nostre esigenze e i nostri sogni con le reali possibilità (adattamento);
  • scegliere in modo consapevole assumendosene la piena responsabilità;
  • affrontare il cambiamento, l’incertezza e lo stress che ne potrebbero derivare;
  • sapere costruire progetti per il futuro e superare gli ostacoli che potrebbero frapporsi fra sé e i propri obiettivi.
In questo processo la persona di solito diventa più forte e più matura.
La consapevolezza di quello che siamo e vogliamo fare, unita alla conoscenza delle reali possibilità del contesto sociale, economico, lavorativo in cui viviamo, favoriscono scelte consapevoli e ragionate, ma soprattutto efficaci per realizzare i nostri progetti di vita.

http://www.psicocitta.it/crescita-personale/orientamento-scolastico-professionale.php

COVRE, LA LIBERTA' DI SCELTA DELLE PROSTITUTE E' ANCORA PROBLEMATICA


(Roma) Pia Covre è la segretaria del Comitato per i Diritti Civili delle prostitute, che ha fondato nel 1982 insieme a Carla Corso e ad altre colleghe.
Come è cambiato il mondo della prostituzione rispetto agli anni che hanno accompagnato la nascita del Comitato per i Diritti Civili delle prostitute?
Direi che possiamo paragonare il cambiamento avvenuto nel mondo della prostituzione alla crisi che si è creata nel mondo del lavoro; la prostituzione, in un certo senso, è il paradigma del resto della società. Oggi il mercato del sesso è molto deteriorato; le donne che vi lavorano vivono, molto spesso, una condizione precaria ed incontrano maggiori difficoltà a lavorare ed a guadagnare. La prostituzione, in questo momento, è lo specchio di una società attraversata dai cambiamenti e dai problemi introdotti dalla globalizzazione.
Le prostitute italiane e quelle straniere incontrano le stesse difficoltà?
Come per ogni altra fetta di mercato, l’alta disponibilità di prostitute straniere, in condizioni di partenza svantaggiate, quindi molto più assoggettabili, finisce per danneggiare anche chi svolge la professione autonomamente, anche se in modo diverso, naturalmente.
Qual è il suo punto di vista sul rapporto tra femministe e prostitute? Cos’è cambiato rispetto agli anni Ottanta?
C’è stata, e c’è ancora, un’espressione del femminismo fortemente critica nei confronti della prostituzione, una voce abolizionista, che definisce i rapporti di prostituzione come rapporti di violenza. Si tratta di una posizione ormai minoritaria, ma che produce ancora effetti, perché, in molti casi, è sostenuta da femministe che hanno raggiunto posizioni di potere. Le giovani femministe di oggi, al contrario, hanno recepito la lotta per la conquista dei diritti delle prostitute e questo è comprensibile, perché loro stesse vivono sulla loro pelle la mancanza di diritti e la difficoltà ad autodeterminarsi. Naturalmente il rapporto tra femminismo e prostituzione non si esaurisce in queste battute veloci; bisogna tener conto delle varie facce del femminismo, ma, concludendo, personalmente, mi auguro che si giunga presto a vedere che, non è condannando le prostitute, che si migliorerà la condizione delle donne nel mondo.
Perché la libertà di scelta della prostituta risulta problematica? Cosa rendere difficile pensare che sia possibile scegliere liberamente di vendere una prestazione sessuale?
Il fatto che le prostitute rivendichino i loro diritti fa paura all’intera società, perché è una richiesta eversiva. Proprio perché la società è impostata su una certa ottica patriarcale, in cui gli uomini esercitano un potere sulle donne, la prostituta ribalta gli schemi: non è a disposizione dell’uomo, ma esercita quasi una superiorità. Sotto il profilo dello scambio sessuale, la prostituta avanza la richiesta di essere pagata, per qualcosa che l’uomo ha ritenuto essere sempre a sua disposizione. Il fatto che le prostitute rivendichino la propria professionalità è eversivo e fa paura. Non so perché alcune femministe non colgano questo aspetto.
La difficoltà di concepire la prostituzione come una scelta possibile, può dipendere dal fatto che siamo abituati a concepire la sessualità come la chiave della nostra intimità, investendola di un immenso valore?
Non ho mai pensato che la sessualità fosse sacra. Di fatto, però, è il discorso che sottende l’educazione di molti di noi. Il solo racconto che sta intorno alla verginità basta a rivelare il grosso investimento che la società ha fatto nei confronti del sesso. Ritengo la sessualità una fonte di piacere, che è stata negata e nascosta alle donne e il fatto che ci siano donne che mettono la sessualità a disposizione del loro piacere fisico e economico, fa paura. Tuttavia, se posso capire che gli uomini abbiano paura di perdere il loro primato, non capisco le donne. Della prostituzione si dice che non sia emancipatoria, ma non è vero, lo è sempre stata: pur essendo donne povere, abbiamo scoperto di avere un patrimonio, da cui possiamo trarre un guadagno. Attraverso la prostituzione, abbiamo trovato uno strumento con cui infrangere questo monolite maschile e non capisco perché non si riconosca che, la nostra, è una lotta al patriarcato.
Quando si parla di prostituzione si finisce per psicanalizzare la prostituta e non si parla quasi mai del cliente. Che idea si è fatta degli uomini e del desiderio maschile?
Diciamo che il panorama è variegato, c’è un po’ di tutto. Fondamentalmente, penso che l’uomo (e probabilmente anche le donne, chissà!) non sia monogamo. Amano avere più donne, ma non con tutte desiderano instaurare una relazione o assumere un impegno, e si rivolgono alle prostitute, o magari hanno delle amanti e non frequentano le prostitute, ma di sicuro la monogamia non esiste.
Un elemento interessante, quando si affronta l’argomento “prostituzione”, è la grande curiosità delle donne nei vostri confronti, che si spinge fino alla richiesta di “fare l’esperienza”. Cosa ne pensa?
Credo che, fin da bambine, ci sia una gran curiosità. Senti sempre parlare di questa donna “per male” e avverti il bisogno di confrontarti con questa specie di mito: ti chiedi chi è l’altra, cosa significhi essere una prostituta. Mi ricordo che quando ero bambina sentivo le comari del paese parlare di una ragazza che riceveva uomini in un appartamento e mi chiedevo cosa si provasse ad essere una prostituta.
E cosa si prova?
Da parte mia una grande gratificazione potrei dire. La prima esperienza mi ha fatto scoprire un mondo.


mercoledì 2 settembre 2015

I BENEFICI PSICOLOGICI DELLE COLLEZIONI


Anche un semplice hobby come il collezionismo ha dei risvolti psicologici interessanti e può dare benefici.

Secondo una ricerca Ipsos una donna su sette raccoglie bijoux, cartoline, biglietti del cinema, scatole o oggetti d’arte. Basta dare un’occhiata in internet per vedere che nel mercato virtuale si compra e baratta di tutto. Ma per gli specialisti non si tratta di un semplice hobby, ma l’arte del raccogliere rivela e aiuta la capacità di concentrazione, e ha risvolti positivi sull’autostima, la gestione dello stress e nella ricerca di sé.

Apre la mente
Sistemare collezione francobolliCercare oggetti, classificarli, assemblarli attiva una serie di processi mentali, quali l’indagine, la formulazione di un’ipotesi sui percorsi da seguire per trovare ciò che si vuole, la valutazione e la scelta. La conseguenza di questo lavoro è l’ottimizzazione delle proprie capacità di giudizio e decisione. Quando la raccolta diventa più ricca è necessario mettere a punto strategie sempre più sofisticate, che allenano le abilità organizzative e la memoria. Chi colleziona con sistematicità si lascia guidare dal fiuto emozionale e dalle capacità di stabilire velocemente somiglianze e differenze e in più favorisce l’intelligenza sociale.
Sviluppa l’attenzione
Collezionare significa mantenere ferma l’attenzione su un tema e cioè equivale a una sorta di meditazione concreta e porta a focalizzare le cose, i pensieri e i sentimenti. Concentrare la mente su uno o più oggetti fa variare l’attività elettrica del cervello che porta ad un senso di calma e benessere. E non si seguono più solo le regole della logica ma ci si abbandona ai processi associativi che consentono di risolvere i problemi attraverso l’ intuito.
Aumenta la sicurezza di sé
Collezionare equivale a possedere e il possesso trasmette sicurezza. Mettere insieme gli oggetti risponde a un desiderio di protezione, e il ritrovamento di un pezzo raro fa sentire bravi, capaci di farcela. Questa buona valutazione di noi stessi consente di rispondere positivamente alla domanda “cosa penso di me?”. Collezionare aiuta a acquistare consapevolezza sulle proprie capacità e quindi potenzia l’autostima. Significa superare il senso di inadeguatezza, imparare a conoscersi e amarsi, scoprendo le proprie qualità.

 Ma non esagerare!

Collezionare è una passione benefica e personale, l’importante è non esagerare. Se raccogliere oggetti porta piano piano a riempire le stanze e a trasformare la casa in un museo, significa che qualcosa non va. Così come quando il pensiero della propria passione assorbe totalmente le persone, arrivando a compromettere anche la stabilità economica pur di avere l’oggetto mancante. In questi casi si tratta di un vero disturbo, che va curato. Come? Per prima cosa rendendosi conto che si ha un problema, anche con l’aiuto delle persone che ci stanno vicine e che ci fanno notare il nostro bisogno ossessivo. Poi bisogna darsi dei limiti, stabilendo un budget che non va superato, o un numero massimo di oggetti da tenere. Se però non si riesce a frenare questo impulso l’aiuto può arrivare anche da qualche seduta di terapia cognitiva, che aiuta a sostituire il bisogno degli oggetti desiderati con nuovi interessi e un diverso modo di gestire il tempo libero.

SCRITTO DA Di Bianca Fracas – PsicoSessuologa, http://www.amando.it/salute/psicologia/benefici-psicologici-collezionismo.html

DAL NUTRIRSI ALL’ABBUFFARSI : I SIGNIFICATI PSICOLOGICI DEL CIBO


Oggi il fenomeno dell’obesità costituisce un fenomeno di incidenza sempre maggiore non solo fra gli adulti ma anche nei bambini; è aumentato perciò l’interesse e la sensibilità verso questo problema sia da un punto di vista strettamente medico sia da un punto di vista sociale, tanto che da più parti viene sentita la necessità di diffondere ed incrementare informazioni sulle corrette abitudini alimentari, e di promuovere la cosiddetta cultura del “mangiar sano”.
Mangiare e bere costituiscono la risposta a pulsioni fisiologiche attraverso le quali l’organismo richiede energia e nutrimento. Mangiare e bere però rappresentano anche un' esperienza psicologica, che corrisponde all’appagamento di un desiderio. Dunque il cibo assume valenze che vanno ben oltre il solo nutrimento. Esiste infatti da sempre anche una concezione non strettamente alimentare del cibo, legata a fattori sociali, culturali e simbolici che derivano a loro volta dagli usi e costumi, dalla storia, e dai valori che caratterizzano una determinata società. Se è vero che la nutrizione si pone come necessità fisiologica, è anche vero che le risposte a quest'ultima sono condizionate dal contesto socio-culturale e possono essere considerate risposte sociali e culturali. Questo spiega perché in molti casi l’obesità non dipenda da fattori organici ma si presenti collegata ad una alterazione del comportamento alimentare di origine psicologica o psico-sociale.


Il supporto psicologico diventa perciò un elemento molto importante nella gestione e nel trattamento del paziente obeso, dal momento che i fattori psichici possono incidere sia come cause che come effetti e conseguenze della patologia.
Rispetto alle cause, il cibo può diventare una sostanza da cui dipendere psicologicamente quando è vissuto o percepito come valvola di sfogo, come rifugio o come sostanza analgesica contro le sofferenze vissute durante la giornata, o contro situazioni di disagio o di conflitto. Pertanto stati d’animo come ansia, depressione, stress, inibizione emotiva possono influire sul rapporto con il cibo e causare un aumento di peso.

Spesso il cibo non è gustato, ma ingurgitato per riempire in fretta un opprimente senso di vuoto interiore, confuso con la sensazione di fame vera e propria. Mangiare, o meglio abbuffarsi, allora, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive. Il cibo può compensare un’affettività carente o non gratificante, può placare un’aggressività non altrimenti esternata, può attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, può consolare da delusioni, fallimenti o eventi traumatici (come lutti, separazioni…). Spesso la rabbia, la tensione, la noia ed altre emozioni sono confuse con la fame.

Le origini di quanto descritto possono essere rintracciate nel tipo di relazione instaurato tra il bambino e le prime figure di attaccamento, relazione che viene mediata anche dalle modalità con cui viene curato l’aspetto alimentare. Un tratto comune delle madri di giovani con problemi di obesità è proprio quello di aver imposto al figlio il proprio concetto rispetto a quelli che sarebbero stati i suoi bisogni. Se la madre nutre il bambino sulla base di propri convincimenti quali, ad esempio, quello secondo cui un bambino grasso è un bambino bello e sano, o quello secondo cui il cibo deve essere fornito secondo precisi schemi in termini di quantità, qualità e orari, questa madre non tiene conto delle effettive e fisiologiche esigenze del piccolo, perciò con il tempo il bambino, avendo difficoltà a percepire lo stato interno di bisogno e di desiderio, comincerà a nutrirsi dipendendo da segnali e fattori esterni. Può accadere inoltre che la madre sia distante affettivamente dal bambino pur essendo molto presente rispetto al suo compito o ruolo. Il bambino può allora percepire il cibo come surrogato dell’affetto e, diventato adulto, potrà assumerlo con questa stessa valenza: le emozioni vengono canalizzate solo attraverso il cibo e l’elaborazione psichica del disagio è sostituita dalla gratificazione che proviene dalle sensazioni corporee. Anche la presenza di un forte legame di tipo simbiotico con la madre durante l’infanzia può essere un fattore di predisposizione all’obesità. Il vincolo di dipendenza del bambino alla madre, inizialmente funzionale alla sopravvivenza del piccolo, se non viene sostituito da progressivi processi di separazione ed individuazione, che segnano la crescita psicologica dell’individuo in termini di autonomia, non lascia al bambino lo spazio sufficiente per diventare psicologicamente maturo e un individuo indipendente. Spesso il bambino è considerato un bene prezioso a cui si debbono le cure migliori ma nello stesso tempo non gli viene riconosciuta la propria individualità. Non solo, ma in questo modo il bambino non è in grado di affrontare e tollerare le frustrazioni; pertanto in futuro potrà avere delle difficoltà a procrastinare il soddisfacimento di un bisogno, che invece è una capacità tipica della persona adulta e psicologicamente matura.

Evitando generalizzazioni, comunque, occorre sottolineare che le dinamiche che entrano in gioco nel predisporre all’obesità sono altamente soggettive, e anche il riferimento alle prime esperienze infantili acquista un certo spessore e significato solo se ci si riferisce a modelli di relazione fra il bambino e le sue figure di attaccamento che risultino in modo reiterato poco funzionali, incoerenti o incostanti.

Per quanto concerne le conseguenze psicologiche dell’obesità, spesso si assiste ad una dispercezione relativa al senso di fame e di sazietà, e soprattutto rispetto alle proprie dimensioni corporee, che nella maggior parte dei casi vengono sottostimate rispetto alla realtà.

Sensi di colpa, sintomi depressivi e bassa autostima sono i principali disagi psicologici riscontrabili nel soggetto obeso.

I sintomi depressivi possono derivare dall’incapacità di osservare un rigido regime alimentare unita allo sperimentare numerosi fallimenti. Il vissuto depressivo può risultare così significativo da interferire con la qualità della vita dell’individuo nel suo insieme, ed il probabile utilizzo del cibo come “antidepressivo”, tipico di questi pazienti, non fa che peggiorare pesantemente la situazione.

La bassa autostima è riscontrabile nella misura in cui questi individui tendono a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento di una migliore forma fisica irrealistiche aspettative di affermazione personale e consenso sociale. Durante l’evoluzione della malattia, inoltre, l’obeso può perdere progressivamente la propria autostima a causa dei possibili fallimenti nei tentativi di perdita di peso, e ciò lo porta a stigmatizzare eventuali trasgressioni favorendo l’insorgere e il consolidamento dei sensi di colpa. Si innesca così un circolo vizioso tale per cui il soggetto alterna momenti di restrizione alimentare con altri di perdita di controllo, con lo sviluppo di pensieri e comportamenti che perpetuano l’obesità.

Oltre al tentativo di risolvere problemi medici causati dal soprappeso, ciò che motiva il paziente a decidere per un trattamento dell’obesità è un disagio generalizzato che l’obesità gli comporta: molti pazienti affermano di sentirsi "non normali", "diversi" o addirittura "discriminati socialmente” a causa del loro peso, che crea notevoli ostacoli sia psicologici che fisici (spesso non riescono, per esempio, a guidare, a salire una rampa di scale o a vestirsi come vorrebbero); percepiscono il loro corpo come “estraneo”, “debordante”, “senza confini” e rifiutano la loro immagine corporea con conseguenti difficoltà relazionali e di accettazione di sé.

Nella cura dell’obesità, l'obiettivo primario non è dunque la perdita di peso ma acquisire uno stile di vita e abitudini alimentari rinnovate e sane. Si presentano allora delle possibilità di approccio multidisciplinare segnate non solo dall’aspetto medico/dietistico ma anche dall’attenzione all’aspetto psico-educativo e ai processi comunicativi e di ascolto. All’inizio della terapia ad esempio sono molto utili i gruppi di sensibilizzazione, che permettono al paziente il raggiungimento di una progressiva consapevolezza del proprio disagio psicologico e danno motivazione a quei pazienti che, provenendo da numerosi tentativi falliti di cura, si definiscono come privi di possibilità di cambiamento. In questi gruppi, attraverso il confronto con altri che condividono sintomatologia e vissuti, in un clima di accettazione e di scambio, è più facile per il paziente verbalizzare le proprie esperienze dolorose, i vissuti di angoscia, colpa e vergogna. Prendendo coscienza di quanto il sintomo possa anche limitare la propria vita, il paziente riscopre i propri bisogni e desideri che possono così diventare una spinta al cambiamento.

A questo gruppo, nel percorso terapeutico, può seguire una terapia psicologica individuale, laddove nasca nel paziente l’esigenza di affrontare ed elaborare proprie questioni che entrano in gioco nella condotta alimentare ma che vanno anche al di là di essa, essendo parte integrante della propria struttura di personalità.

In conclusione, il processo terapeutico, tenendo conto di tutti questi fattori, non dovrebbe allora avere solo lo scopo di restituire l’integrità organica all’individuo così come era prima della patologia, ma dovrebbe tendere verso un’evoluzione più completa della persona, in direzione di un costante processo di cambiamento e di acquisizione di una nuova consapevolezza di sé e dei propri meccanismi inconsci di relazione con il cibo e più in generale con l'Altro del legame sociale.

Dott.ssa Leila Zannier

·http://www.associazioneamigdala.it/approfondimenti/dal-nutrirsi-all2019abbuffarsi-i-significati-psicologici-del-cibo

COSA VUOL DIRE ESSERE ALESSITIMICI?





L’alessitimia è l’incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente gli stati emotivi (propri o degli altri).
E’ come una sorta di analfabetismo emozionale, cioè lincapacità di tradurre le proprie emozioni in parole.
L’incapacità di descrivere i propri sentimenti e di interpretare quelli degli altri è legata a tutta una serie di caratteristiche che si potrebbero ricondurre a unaincapacità generale di introspezione.
Nello specifico chi è alessitimico presenta:
·         Incapacità di discriminare un’emozione dall’altra
·         Incapacità di usare il linguaggio metaforico, con tendenza a sostituire il parlare con l’azione fisica diretta
·         Scarsa capacità a provare emozioni positive (gioia, felicità, amore…)
·         Ridotta espressività facciale
·         Ridotta o inesistente capacità onirica e immaginativa
·         Pensiero egoistico e infantile
·         Pensiero orientato quasi solo all’esterno, e raramente verso i propri processi endopsichici
·         Tendenza ad attribuire gli eventi della sua vita a cause esterne
·         In amore tendenza a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di queste, scelta ostinata della solitudine
·         Incapace di capire, l’alessitimico vive l’emozione solo per via somatica: percepisce solo gli effetti fisici (batticuore, nodo alla gola, mal di pancia) senza saperne interpretare il significato (amore, ansia, paura…)
·         Molti disturbi collegati all’alessitimia, come l’impotenza (o l’eiaculazione precoce), la tendenza all’abuso di sostanze, l’ansia, l’ipertensione e la dispepsia (difficoltà di digestione)

Quali possono essere la cause?
Su quali possano essere le cause non esiste ancora una teoria concorde e univoca, e sembrerebbe che di notevole importanza sia il tipo di accudimento materno nei confronti del bambino nel far acquisire a quest’ultimo la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni e di modularsi con quelle materne.
Nelle famiglie dei soggetti alessitimici si riscontra un forte coinvolgimento emotivo unito ad una mancanza di regole di controllo del comportamento con una scarsa capacità di risoluzione dei problemi.
L’alessitimia inoltre, può insorgere anche in un periodo della vita successivo all’infanzia, spesso in conseguenza di un trauma subito, anche in età adulta. Qui l’emozione viene solitamente vissuta come una potente minaccia di un ritorno dell’episodio traumatico stesso. In questi soggetti si nota spesso una incapacità di autoaccudirsi, di parlare con sé stessi al fine di consolarsi e di comprendere realmente cosa “accada dentro sé”.

Rieducare con la psicoterapia

Le persone alessitimiche hanno difficoltà a comunicare verbalmente agli altri il proprio disagio emotivo e non riescono ad usare le altre persone come fonti di conforto, di tranquillità, di feedback, di aiuto nella regolazione dello stress. La scarsità della vita immaginativa, inoltre, limita la loro possibilità di modulare l’ansia e le altre emozioni negative, attraverso i ricordi, le fantasie, i sogni ad occhi aperti, il gioco, ecc.
A questo scopo si potrebbero combinare alcuni interventi psicoterapeutici per una rieducazione emotiva con tecniche comportamentali, quali il training di rilassamento, il training autogeno e il biofeedback, tecniche che si concentrano direttamente sulle sensazioni corporee e aumentano allo stesso tempo la consapevolezza da parte del paziente della relazione di queste sensazioni con gli eventi ambientali.
L’approccio terapeutico che va utilizzato per i pazienti alessitimici si propone di elevare le emozioni da un livello di esperienza strettamente legata alla percezione corporea a un livello di rappresentazione concettuale in cui le emozioni possono essere oggetto di riflessione.



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