giovedì 17 dicembre 2015

L’arte di comunicare


 
La comunicazione efficace rappresenta uno dei principali fattori responsabili della crescita personale.

Comunicare non vuol dire solo parlare in modo corretto e trasmettere un messaggio. Comunicare significa entrare in sintonia con l’altro, scambiare informazioni, avere un contatto emotivo con se stessi e con gli altri, ascoltare realmente, rispettare i diritti e le libertà di chi ci sta di fronte, arricchirsi interiormente.

Non si può non comunicare ed ogni nostro comportamento è comunicazione. Proprio per questo motivo diventa estremamente importante saper comunicare in modo efficace.

Cosa rende la nostra comunicazione efficace?
 

Ciò che rende una comunicazione efficace sono tante cose che non sono le parole. Numerosi studi ci dicono che quando comunichiamo la comunicazione verbale (quindi le parole che utilizziamo) hanno un “peso” di circa il 7%. Parte ben più importante nel rendere efficace un messaggio è l’uso della nostra voce (circa il 38%), ovvero il modo in cui le parole vengono utilizzate (volume, tono, ritmo, timbro, velocità, pause). Il restante 55% rappresenta la comunicazione non verbale, ovvero tutto ciò che comunica il nostro corpo indipendentemente dalle parole e dalla voce.

L'atteggiamento del corpo, la mimica facciale, la postura, i movimenti degli arti, sono solo alcuni degli atti comunicativi che mettiamo in atto durante le nostre conversazioni. Questi atti hanno un loro preciso valore comunicativo che spesso rimane a livello inconsapevole. Tuttavia sono proprio questi atti a veicolare la maggior parte del nostro messaggio.

Divenire consapevoli di questo "linguaggio", anche attraverso un percorso con lo psicologo, ci fornisce un ottimo strumento per essere incisivi. Una comunicazione efficace può fare la differenza nel vendere, nel trasmettere idee, nel superare un esame, nel parlare davanti ad un pubblico o nel conquistare un posto di lavoro.


La comunicazione efficace è uno strumento utilissimo che se usato al meglio può aiutare in ogni occasione della vita, sia personale che professionale.

FONTE:

mercoledì 9 dicembre 2015

SONO NARCISISTA E ME NE VANTO...o forse no?


Io sono al centro.
Intendo al centro del mio mondo e di quello degli altri. Tutti mi amano, tutti mi stimano. O meglio: lo vorrei, perché è questo che mi fa stare bene. Per me l’attenzione degli altri è come la benzina per un’automobile: senza non vado da nessuna parte. Purtroppo la benzina mi finisce presto e così ho sempre questo bisogno costante di avere attorno persone che mi dicono quanto sono in gamba, quanto sono intelligente e cose simili. Ebbene sì, sono un narcisista. Ma c’è poco da stare allegri.

Narcisista io?
Del resto io sono speciale, ho stile, so parlare, valgo più delle persone di cui mi circondo. Sì, sono una spanna sopra gli altri e per loro stare con me è un onore e un privilegio. Forse non sono umile, ma un difetto bisogna pur averlo! A volte mi dicono arrogante. Secondo me però sono solo invidiosi, perché vorrebbero essere come me. Sì, sono dei mediocri: è questa la verità. Che colpa ne ho se sono il migliore?
Mi rimproverano che non mi preoccupo molto di quello che gli altri intorno a me desiderano o pensano. Mi dicono che sono insensibile e che penso solo a me. Secondo me ciascuno deve badare a se stesso e io non sono certo a disposizione delle altre persone. Mica faccio beneficenza! E se aiuto qualcuno, poi ritengo giusto che mi si ricambi con amore e fedeltà a oltranza. Quanto ad amare a mia volta, questa è un’altra faccenda.
Ho avuto molte donne, spesso più storie parallele, perché le emozioni è meglio averle a piccole dosi. Forse non ho mai amato nessuna. Cosa vuol dire poi amare?
Quando la sera torno a casa e non trovo nessuno contento del mio arrivo, allora mi sento male, mi sento un guscio vuoto. Penso con dolore che questa solitudine sia ciò che merito.
Ma è un pensiero che dura un attimo appena. Poi passa e torno vincitore. Io sono un figo, splendido e splendente. Senza gli altri però io non ne sono più così sicuro. Senza gli altri io non so chi sono, ma questa è una cosa che non posso dire a nessuno. Non voglio che pensino che sono la persona debole e mediocre che ho il terrore di essere. Show must go on!

Fonte: http://www.quipsicologia.it/sono-narcisista-e-me-ne-vanto-o-forse-no/


giovedì 3 dicembre 2015

“Uffa ho delle coscie enormi”: il fenomeno del Fat Talk tra amiche.

Il Fat talk è un fenomeno caratterizzato da una serie di conversazioni tra amiche che riguardano discorsi aventi come fulcro l’aspetto fisico.
Il Fat Talk non è altro che un fenomeno che prevede affermazioni denigratorie tendenti a promuovere l’ideale di magrezza ed è altamente pericoloso sia per chi pronuncia tali affermazioni sia per chi partecipa attivamente a tali conversazioni.


Uno studio sperimentale ha indagato il fenomeno del Fat Talk nelle relazioni amicali, ponendosi come obiettivo quello di indagare se tale fenomeno contribuisse a promuovere l’insorgenza di alcuni correlati dei disturbi dell’alimentazione quali: l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza, l’insoddisfazione corporea, il malumore e l’intenzione di mettersi a dieta.
Sono state indagate 43 coppie di amiche di età compresa tra i 17 e i 25 anni. Tali coppie sono state invitate a presentarsi nei laboratori della University of Queensland per partecipare a uno studio a loro presentato con il nome "Chattare con le amiche”. Le amiche venivano collocate in due stanze differenti e veniva messo a loro disposizione un computer.
Al computer era predisposta la finestra di una chat attraverso la quale avrebbero potuto chattare con l’amica per commentare 20 foto raffiguranti delle celebrità, presentate una alla volta.
Inoltre veniva detto loro che il computer avrebbe assegnato casualmente a ciascuna di loro il ruolo di promotrice della discussione o di replicatrice del messaggio. In realtà entrambe le partecipanti erano disposte a rispondere a commenti già predisposti dallo sperimentatore, credendo così che questi erano provenienti dall’amica.
I commenti portavano alla creazione di tre tipi di conversazioni:
1)   condizione neutrale, commenti che non riguardavano l’aspetto ficiso ad es.:”che attrice straordinaria!”;
2)  condizione di Fat Talk, commenti che esplicitamente valutavano lo stato di magrezza o l’insoddisfazione corporea ad es.:“ sta proprio bene da quando ha perso un’po’ di chili” o “ dovrei stare più attenta a quello che mangio”;
3)  condizione positiva, commenti di accettazione e soddisfazione per il proprio aspetto fisico :”che bella quella gonna, mi starebbe benissimo!”.
Conclusasi questa fase, ogni partecipante compilava dei questionari che andavano a misurare vari aspetti quali:malumore, interiorizzazione dell’ideale di magrezza ed intenzione di mettersi a dieta ed un questionario volto ad indagare le “norme” esistenti all’interno del gruppo amicale riguardo al Fat Talk con domande del tipo:“Quanto spesso le ragazze nel tuo gruppo parlano di suggerimenti per diete/perdita di peso?” “In che modo le tue amiche sono insoddisfatte del proprio peso/forma corporea?”
Dai risultati di questo studio è emerso che i correlati dei disturbi alimentari indagati attraverso i questionari, erano presenti in maniera significativamente maggiore tra coloro che erano solite utilizzare i commenti di tipo Fat Talk. Un aspetto interessante è che le donne che non rispondevano ai commenti Fat Talk delle amiche non manifestavano effetti negativi sul proprio benessere, al contrario di coloro che vi  partecipavano attivamente, le quali riportavano un’aderenza maggiore a caratteristiche tipiche dei disturbi alimentari.
Le donne che non aderivano a tali discussioni però dovevano pagare dei costi in termini “sociali”, in quanto le donne che si conformavano maggiormente all’ideale espresso dal gruppo, venivano valutate più positivamente rispetto a chi se ne discostava.
Il Fat Talk fa sì che all’interno del gruppo amicale si crei un clima in cui l’insoddisfazione ed il malcontento verso il proprio corpo vengono perpetuati, svolgendo un ruolo causale nella promozione di atteggiamenti che favoriscono l’insorgere di disturbi alimentari. Modificare una tale modalità di comunicazione apporterebbe dei benefici non solo in termini personali ma anche all’intero gruppo amicale, anche se ciò potrebbe avere l’effetto paradossale di ridurre la qualità percepita delle relazioni amicali stesse.


Fonte:http://www.mentecomportamento.it/amiche-attenzione-al-fat-talk/





Il lato positivo

Il lato positivo - Silver Linings Playbook (Silver Linings Playbook) è un film del 2012 diretto da David O. Russell, tratto dal romanzo di Matthew Quick “L'orlo argenteo delle nuvole”, con protagonisti Bradley Cooper, Jennifer Lawrence e Robert De Niro.

Il protagonista, Pat Solitano, ha perso tutto: la moglie, la casa e il lavoro. Dopo aver passato otto mesi in un istituto psichiatrico poiché affetto da disturbo bipolare, emerso dopo aver sorpreso la moglie fedifraga, torna a vivere con i genitori, trasferendosi nella casa della sua infanzia.
Nonostante le difficoltà, è determinato a ricostruire la propria vita e a riconquistare la moglie.
Silver Linings Playbook, infatti, letteralmente significa il libretto dei risvolti positivi. I Silver Linings del titolo (ossia i risvolti positivi) rappresentano le buone intenzioni che il protagonista Pat s'impone di mettere in atto in modo da riconquistare la moglie, quali fare jogging ogni giorno, leggere i libri che la moglie fa leggere ai suoi studenti, e così via.
Durante il suo percorso riabilitativo, tra le difficoltà che i suoi propositi e la convivenza con i genitori gli comportano, Pat incontra Tiffany, una misteriosa e problematica giovane donna, che in seguito alla morte del marito si è data alla promiscuità. 

Tiffany e Pat

Tiffany si offre di aiutare Pat, l'unica persona che ha rifiutato di fare sesso con lei e le ha dimostrato amicizia, a riconquistare la moglie consegnandole una lettera, ma solo se lui in cambio farà qualcosa di veramente importante per lei: partecipare con lei a una gara di ballo.
Nel frattempo Pat deve ricucire un rapporto non facilissimo col padre, scommettitore incallito col sogno d'aprire un ristorante, e col fratello Jake, che rappresenta, con la sua realizzazione personale e professionale, lo specchio dei contrari di ciò che Pat non è riuscito a portare a termine nella sua vita.
Dopo una serie di incontri con Tiffany, culminati nella gara di ballo, Pat rivela a Tiffany di essersi innamorato di lei dal primo giorno che si sono incontrati e di sapere che lei non aveva mai consegnato la lettera alla ex moglie.

Nel tentativo di estrapolare le tematiche salienti del film emergono vari spunti a sfondo psicologico.

Primo fra tutti il tema della rabbia, che condiziona il protagonista dall’inizio del film: infatti egli viene ricoverato nell’istituto psichiatrico che fa da sfondo alle prime scene del film, proprio per un’ esplosione di rabbia, culminata in una drammatica aggressione, nei confronti dell’amante della moglie.
È per queste lesioni aggravate che viene affidato alle cure psichiatriche, che porteranno alla diagnosi del disturbo bipolare che, come racconterà Pat allo psicologo incaricato di seguirlo una volta dimesso dal centro, ha concorso al naufragare del suo matrimonio.

Si può dire che il vero protagonista de “Il Lato positivo” sia proprio il disagio psichico: addentrandoci nella vita di Pat, vediamo come in chiunque lo circondi sia presente una forte sofferenza psicologica, seppure in forme diverse.

Accanto al disturbo bipolare di Pat, che tenta disperatamente di contrastare con tutti i suoi buoni propositi (il rimettersi in forma, la costanza nello sport, la lettura del programma scolastico della ex moglie Nikki, insegnante di lettere, il suo riavvicinarsi alle vecchie amicizie, i suoi tentativi di riprendere il suo posto da docente nel liceo cittadino), vediamo delinearsi il quadro patologico della sua famiglia di origine: i tratti ossessivo compulsivi e le abitudini maniacalmente ritualizzate del padre, forte scommettitore, diventano quasi attori nella vicenda, imponendo a Pat un rientro nei vecchi schemi che avevano sicuramente caratterizzato la sua formazione; le lacrime, il panico e la natura fortemente ansiosa di una madre amorevolmente invischiata, ma sostanzialmente incapace di gestire i rapporti problematici fra i tre uomini della sua famiglia, la malattia psichiatrica del figlio, il disturbo ossessivo del marito, sono lo specchio della sua connivenza e del senso di colpa che ne deriva.
In questo quadro di disagio la vita di Pat interseca quella della giovane e altrettanto problematica Tiffany, che incarna una sofferenza diversa da quella di Pat, incapace di evolversi e lasciar andare il fantasma dell’amore nei confronti della sua ex moglie, diventato il simbolo della riappropriazione della vita che il disturbo dipolare gli ha sottratto, nonché l’unica forma di riscatto possibile, per Pat, dalla malattia.
Tiffany, al contrario, tenta di sfuggire al dolore del lutto diventando patologicamente promiscua, ballando sul confine sottile fra dipendenza affettiva, cercando nel sesso, nella compagnia effimera del contatto carnale, una via di fuga dal pensiero del suo amore perduto, e l’evitamento, tramite la scelta di molteplici partner esclusivamente sessuali, di qualsiasi contatto con una reale intimità.

È proprio l’impattare della fissità di Pat con il vivo, pulsante desiderio di superare il dolore di Tiffany che alla fine si presenta come elemento risolutore del film.

È infatti la capacità di Tiffany di spezzare la ritualizzata rincorsa di Pat a un’apparente normalità, antecedente l’esplodere del suo disturbo, il cardine di un concreto passo in avanti per entrambi.
È grazie a Tiffany, il suo coinvolgerlo in un progetto che non rientri nei suoi buoni propositi, che non sia legato alla riconquista di Nikki, la sua sofferta autenticità e la sospensione di giudizio nei confronti della patologia di Pat, che il protagonista riuscirà a lasciarsi indietro il passato e andare avanti nella sua vita.


Dott.ssa Arianna Santarsiero
Laureata in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università G.D'annunzio Chieti-Pescara e tirocinante presso la Obiettivo famiglia Onlus

mercoledì 2 dicembre 2015

Dire di no agli “altri” ci permette di dire di si a noi stessi.



Sono  cresciuta con la convinzione che per stare bene e per sentirsi sempre soddisfatti della propria vita avessi bisogno dei continui apprezzamenti degli altri, di una comitiva numerosa di amici, di popolarità, di cene di famiglia piene di parenti, e per far fede a tutte queste convinzioni mi sono sempre trovata in situazioni in cui ad esempio dicevo di si ad un’amica per uscita quando magari in quel momento avevo solo voglia di stare a casa sotto il piumone a leggere un libro. Poi con il passare del tempo sono cresciuta e pian piano sono arrivata alla consapevolezza che per potere essere più serena e felice in primo luogo dovevo ascoltare me stessa, dovevo amare me stessa. Sto imparando anche a capire che è più importante trovare il contatto con la mia vita interiore per poter anche migliorare la relazione con l’altro. Qualcuno potrebbe confondere questo atteggiamento con una forma di egoismo, ma se una persona non riesce ad avere un buon contatto con la propria intimità e una buona stima di sè, quello che potrà donare all’altro non sarà carico di negatività? Le basi sulle quale il rapporto andrebbe a fondarsi non sarebbero troppo fragili? Non potremmo mai dare all’altro qualcosa di positivo, se in primis non siamo noi a provare per noi stessi qualcosa di positivo.
Lo psicoanalista Erich Fromm nel suo libro “ L’arte di Amare” ci dice come egoismo e amore per se stessi non siano affatto la stessa cosa. L’egoista non ama troppo se stesso, ma troppo poco. E nell’esempio di una madre troppo premurosa  potrebbe comprendersi questo concetto. Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà potrebbe avere una profonda, repressa ostilità per l'oggetto del proprio interesse. Potrebbe essere eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità di amarlo.
Dunque investire il proprio tempo sulla propria persona a mio avviso è la chiave per riuscire a vivere bene la propria vita, senza rinunciare a sé stessi e senza rinunciare agli altri. Nella mia esperienza personale credo che il percorso di crescita  non si esaurisca mai, poiché siamo esseri in continua evoluzione, e ho anche imparato che uno strumento valido per accompagnarci in questo cammino è un percorso terapeutico, perché in questo caso avere una guida mi appare come il miglior metodo per mettere in pratica la mia crescita personale.

Se posso dire a un altro “ti amo”, devo essere in grado di dire “amo tutti in te, amo il mondo attraverso te, amo in te anche me stesso”.
Erich Fromm

Dott.ssa Spallino Stefania

Laureata in Psicologia clinica e della salute e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus

martedì 1 dicembre 2015

IL PRINCIPE AZZURRO ESISTE DAVVERO?



Il principe azzurro è un personaggio tipico che appare in numerose fiabe, un principe che soccorre la damigella in difficoltà; in genere supera ostacoli e affronta pericoli per liberarla da incantesimi o da orchi e draghi.
Proprio perché è un “simbolo”, il Principe Azzurro viene spesso citato nel linguaggio comune per riferirsi a un ideale romantico di “compagno o marito”.
"Aspettare il Principe Azzurro" è una espressione consueta per riferirsi a una donna alla ricerca dell’uomo perfetto, bello bravo e coraggioso.


La questione è: il principe azzurro esiste per davvero?

Diciamo che ogni ragazza ha il suo personale ideale, anche se sembrano tutti confluire sulla perfezione.
Diciamo che con gli anni e l’esperienza, questo ideale si personalizza, ogni ragazza matura sempre di più il suo proprio ideale.
Si passa dalle ragazze che ancora credono alla perfezione, forse negli anni dell’adolescenza, a quelle che si “accontentano del meno peggio” consapevoli che la perfezione non è di questo mondo.
Date queste premesse, forse controcorrente, il vero principe azzurro è quella che favorisce la nostra autonomia.
È vero, Il principe azzurro è gentile e galante, ma forse è colui che facilita la crescita personale e autonomia.
Certo può essere gentile e cooperativo, ma soprattutto val la pena che sappia rispettare il desiderio di crescita e autonomia della sua amata.
Il principio di base è che per essere bisogna “diventare” e diventare significa sviluppo delle proprie risorse, il che implica la presa di coscienza realistica delle proprie capacità e competenze e voglia di metterle in circolo.
In particolare l’Autonomia affettiva trova il suo corrispettivo negativo nella simbiosi e dipendenza, che invece limita e rende insicure e deboli.
L’autonomia affettiva cresce e si sviluppa in famiglia, nell’amicizia, nel gruppo e nella coppia.
Tutte esperienze che ci consentono di esprimerci e sperimentare le nostre capacità senza la paura dei giudizi esterni.


https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-sesso-amore/564-principe-azzurro

LA PAURA DI GUIDARE (AMAXOFOBIA): QUANDO L’ANSIA AFFERRA IL VOLANTE

L’amaxofobia è una paura decisamente invalidante che si manifesta in alcune persone - a volte già colpite da un Disturbo d’Ansia - e che condiziona l’esistenza di chi, pur avendo conseguito la patente di guida, non riesce in nessun caso a guidare l’automobile perché non si sente di farlo o non ci riesce in condizioni particolari perché bloccato dall’ansia e da aspettative negative che lo frenano.
In certi casi si manifesta con la rinuncia preventiva a conseguire la patente o con il reiterato fallimento ai test per la licenza di guida, che il soggetto non riesce a superare nemmeno dopo diversi tentativi e pur avendo studiato.
PAURA DI COSA?
L’amaxofobia si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti in condizioni specifiche che non sono le stesse per tutti i soggetti.
Possiamo distinguere:
  • la paura di guidare da soli in genere o in assenza di una specifica persona al proprio fianco
  • la paura di guidare di notte o quando è buio
  • la paura di guidare in autostrada e su strade a scorrimento veloce
  • la paura di guidare attraverso le gallerie
  • la paura di valicare i ponti, in particolare se alti o lunghi
  • la paura del traffico nel quale ci si può trovare bloccati o rallentati mentre si è alla guida
  • la paura di allontanarsi oltre ad una certa distanza da casa.
A volte quindi è la presenza di altre persone ad essere considerata indispensabile per poter guidare, altre volte l’amaxofobico deve “semplicemente” evitare certe condizioni esterne per sentirsi sicuro alla guida, ma in certi casi questa attività è totalmente inibita e non esiste una modificazione del contesto che influisca positivamente sulla paura mitigandola e permettendo di mettersi al volante.
Esaminando i contesti nei quali alcuni hanno paura di guidare si può notare come si tratti di condizioni che rimandano al tema dell’ansia da separazione (guidare da soli o in assenza di una certa persona, allontanarsi troppo da casa), della claustrofobia (gallerie, traffico bloccato), della mancanza di controllo sull’ambiente circostante (buio, traffico veloce) e dell’agorafobia intesa come paura di non trovare un riparo e una via di fuga (gallerie, ponti, strade che attraversano spazi aperti in pianura).
Una paura a sé stante è quella di impazzire ed essere colti da un raptus mentre si è alla guida, che lascia intravvedere una forte componente aggressiva che dà segno di sé all’interno delle fantasie di distruzione di chi vive questo tipo di timore.
La presenza trasversale di insicurezza e scarsa fiducia nelle proprie capacità di controllo e autocontrollo porta l’amaxofobico a sviluppare intensa ansia anticipatoria e quindi una serie di vivide immagini che rappresentano le sue aspettative circa quello che potrebbe succedere se si mettesse alla guida.
Tali immagini mentali scoraggiano efficacemente i tentativi di affrontare questa paura perché possono essere catastrofiche e inibire anche il desiderio di superare questo problema, portando a  ritenerlo irrisolvibile e a concentrarsi piuttosto sull’individuazione di strategie alternative che consentano di aggirare la necessità o il desiderio di mettersi al volante.
COSA TEME UNA PERSONA CHE HA PAURA DI GUIDARE?
Lo scenario che si prefigura chi ha paura di guidare può includere:
  • la perdita di controllo dell’auto a causa di un attacco di panico o di uno svenimento e la conseguente possibilità di causare un incidente grave
  • l’incapacità di evitare gli altri veicoli, in particolare se molto grossi come i camion, e la possibilità di esserne investiti
  • la necessità non soddisfabile di abbandonare l’auto a causa di una crisi di claustrofobia o più genericamente idi ansia
  • la perdita dell’orientamento e quindi della strada giusta da percorrere, con la conseguenza di smarrirsi e ritrovarsi in zone non conosciute
  • l’incapacità tecnica di condurre adeguatamente il veicolo, esponendosi così al giudizio (negativo) altrui e facendo una brutta figura
  • l’insorgenza improvvisa di un “raptus” che porti a provocare volontariamente un incidente o a dirigere l’auto contro cose o persone.
CAUSE
La paura di guidare può scaturire da diverse cause, in parte legate al significato che riveste la possibilità di muoversi autonomamente conducendo un mezzo di trasporto che consenta di allontanarsi e spostarsi a proprio piacimento andando dove si desidera senza dipendere da altri.
In alcuni casi affrontare la strada e gli altri utenti della strada è la fonte di preoccupazione originaria dell’amaxofobico, mentre molte altre volte ciò che alimenta questa paura non è immediatamente individuabile e riconoscibile. 
Alcune possibili cause sono:
  • presenza di un Disturbo d’Ansia che, nella sua manifestazione, include anche l’amaxofobia
  • dipendenza dall’ambiente di appartenenza, in particolare da quello familiare, che porta l’amaxofobico a ottenere di essere accompagnato in quanto non autonomo
  • conflitto fra dipendenza e autonomia e paura di crescere facendo le proprie scelte e decidendo la propria strada, che riguarda principalmente i giovani che vivono un disagio legato all’ingresso nella vita adulta
  • esperienze traumatiche, inclusi gli incidenti causati personalmente o subiti sia nella posizione di passeggero che in quella di conducente di veicolo investito, oltre agli incidenti subiti da persone vicine o ai quali si ha assistito
  • presenza di rabbia e di pulsioni aggressive inconsce che potrebbero emergere durante la guida
  • pregiudizi culturali, che condizionano ancora oggi alcune ragazze e donne cresciute in ambienti nei quali si ritiene che la donna non possa essere capace di guidare come l’uomo o in famiglie nelle quali vi è o era una figura maschile che ha trasmesso loro esplicitamente la convinzione dell’incapacità di guidare, nonostante il conseguimento della patente
  • invecchiamento e depressione, che influenzano i guidatori anziani e rendono alcuni di essi insicuri e dubbiosi circa la propria capacità di continuare a guidare nonostante non vi sia un oggettivo deterioramento delle loro prestazioni nella guida.

SINTOMI

La paura di guidare si può manifestare all’interno di un quadro ansioso più generale, e quindi in soggetti che soffrono di un Disturbo d’Ansia, oppure in persone che hanno questa e a volte altre paure che nascono dalla scarsa fiducia nelle proprie capacità e dal desiderio più o meno consapevole di mantenere un rapporto di dipendenza dalla famiglia o dagli altri in generale.
Non essere in grado di spostarsi da soli in auto pur avendo la patente significa infatti ricorrere all’aiuto degli altri per effettuare i tragitti obbligati o desiderati, rimanendo nella posizione disoggetto non autonomo e incapace di prendersi anche simbolicamente la responsabilità della propria vita.
Indipendentemente dalle cause presenti nel singolo caso, l’amaxofobico può sperimentare di volta in volta un disagio di differente intensità che va dalla lieve sensazione di disturbo all’attacco di panico vero e proprio: a volte entra in uno stato anticipatorio di disagio al pensiero di guidare, mentre altre volte può sentirsi molto ansioso quando entra in macchina e si posiziona sul sedile del guidatore, quando avvia l’auto o dopo aver percorso un tratto di strada ed essersi allontanato dalla propria “base sicura”.
I sintomi dell’amaxofobia sono tipici dell’ansia patologica e possono includere iperattivazione(tachicardia, fame d’aria, tremori, agitazione), vertigini, sensazione di “testa vuota” o di irrealtà, nausea, colite e così via. Tali sintomi possono comparire già prima di entrare in auto in chi sperimenta forte ansia anticipatoria, mentre negli altri casi sopraggiungono quando il soggetto è già al volante.

CONSEGUENZE DELL'AMAXOFOBIA
La paura di guidare può essere decisamente invalidante perché influenza significativamente molteplici attività e contesti. In linea generale si nota una forte limitazione dell’autonomia e della libertà di movimento della persona che si trova a regolare la propria esistenza in base al pericolo di provare quell’intenso disagio che l’attività della guida gli procura e a prendere decisioni che consentano di evitarlo.
Tale evitamento porta all’impoverimento relazionale e a volte economico della vita del soggetto, a causa della sua rinuncia ad attività che implicano la possibilità di spostarsi con un’automobile: tale rinuncia a volte può riguardare opportunità lavorative, comportando una perdita economica significativa, mentre altre volte riguarda attività sociali, comportando la perdita di rapporti d’amicizia e la rinuncia a svaghi e interessi.
La conseguenza di tale peggioramento della qualità della vita è una ricaduta negativa sull’autostima del soggetto, che genera un circolo vizioso: non guidando rinuncia a tante cose, è più solo e si sente limitato e “perdente”, e questo deterioramento dell’immagine di sé lo porta a sentirsi ulteriormente incapace e diverso dagli altri e quindi non in grado di condurre un veicolo.

COME SUPERARE LA PAURA DI GUIDARE?

A seconda della gravità del quadro clinico può essere necessaria la psicoterapia o possono essere sufficienti interventi di sostegno e riabilitazione psicologica che aiutino la persona a “sbloccarsi” e a riconoscere di possedere le abilità necessarie per riprendere la guida, mettendole in pratica o conseguendo finalmente la patente di guida dopo una serie di tentativi fallimentari.
Per stabilire quale intervento sia maggiormente appropriato, e verificare l’eventuale necessità di una psicoterapia, è fondamentale una valutazione psicologica preliminare che collochi il problema all’interno della storia di vita del soggetto, identificandone il significato, e ne quantifichi la portata.
Nel caso in cui sia sufficiente un intervento limitato e di natura riabilitativa possono essere utili strumenti come l‘ipnosi, la PNL e l’EMDR, in particolare nel caso in cui l’amaxofobia abbia origine traumatica, mentre quando l’amaxofobico è colpito da un Disturbo d’Ansia o d’altro genere è importante che si sottoponga a psicoterapia. 
I punti centrali di un intervento psicoterapeutico potranno riguardare l’elaborazione del conflitto dipendenza-autonomia, il superamento della necessità di controllo, l’elaborazione delle pulsioni aggressive, la modificazione dell’immagine di Sé e dell’autostima del soggetto.
E’ importante sottolineare il fatto che la paura di guidare si può superare e che i Disturbi d’Ansia che a volte ne sono la causa si possono efficacemente curare con la psicoterapia: come in tutti i casi in cui la vita di una persona è limitata dalla paura ciò che conta è rivolgersi ad uno psicologo senza attendere impossibili risoluzioni spontanee e senza perdere tempo prezioso. 
Aspettare significa far crescere il problema e rendere sempre più insopportabile la difficoltà, ma anche alimentare il pensiero che non vi sia soluzione e che quello sia il proprio “destino” o il proprio “carattere”.
Attivarsi rapidamente per cercare un aiuto professionale significa invece abbreviare i tempi del lavoro psicologico o psicoterapeutico e non condannarsi a sopportare ulteriormente limitazioni tranquillamente superabili con l’intervento adatto.


FONTE:http://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/1930-paura-guidare-amaxofobia-ansia-afferra-volante.html?refresh_ce