martedì 30 giugno 2015

DONNE DENTRO. QUANDO LA FEMMINILITA' E' RECLUSA

"È una bella prigione, il mondo"
William Shakespeare


Se ad oggi si parla troppo poco di carcere, delle donne recluse e delle problematiche femminili, legate agli istituti penitenziari, se ne parla ancor meno.
In Italia le donne in carcere sono pochissime, ovvero il 4%, una percentuale decisamente minoritaria che forse proprio per questo rimane a margine nelle cronache. Inoltre, il fatto che siano una piccola minoranza, in un universo pensato per il genere maschile, le rende ancora più invisibili e le espone a una situazione ancora più penalizzante.
Insomma, le differenze di genere continuano ad esistere anche dietro le sbarre.
Per quanto riguarda il rapporto crimine-donna, gli studi indicano che il sesso femminile ha una soglia criminale più elevata, commette cioè meno reati, e quando lo fa è coinvolto poco in reati socialmente pericolosi e violenze gravi. In cella le donne finiscono soprattutto per furti, scippi, reati legati al consumo di stupefacenti.
Dai diversi studi emerge anche che spesso queste detenute presentano un passato problematico, fatto di abusi, violenza domestica e la maggior parte proviene da condizioni di marginalità sociale, aspetto che riguarda comunque l'intera popolazione carceraria, ed il disagio, che non riesce a trovare risposte "fuori", finisce "dentro" per incontrarsi con quello provocato dalla detenzione stessa.
I detenuti sono costretti a confrontarsi con una nuova realtà, il più delle volte lontanissima dal termine riabilitativo, fatta di degrado e povertà,  non solo da un punto di vista pratico, ma soprattutto sociale e relazionale. Chi è in carcere soffre di deprivazione affettiva, le donne ancora di più, in particolare nei rapporti di maternità e genitorialità.
Dalle diverse storie emerge anche una sofferenza legata ai loro ruoli sociali, un sentirsi meno, le donne generalmente sostengono le reti di cura e familiari, ma quando vengono a mancare ricevono uno scarso sostegno. Chi è in carcere ha commesso un reato e quindi di per sé è biasimabile, una donna lo è due volte; è come se commettendo un crimine si venisse meno a una certa idea di femminilità. Sembra qualcosa di antico, ma in realtà il giudizio morale è ancora presente e le donne in carcere non solo lo sentono, ma lo interiorizzano.  Nella società sono solitamente loro a portare il maggior peso di responsabilità affettiva, e così la detenuta oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole per aver abbandonato e tradito la propria famiglia, si sente responsabile per non poter far nulla e somatizza il suo malessere.
Da un punto di vista più pratico, gli spazi in cui sono costrette a vivere si presentano carenti, poco igienici e sovraffollati, vivono ristrette in uno dei cinque istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e Venezia Giudecca) o in una delle 52 sezioni presenti all’interno delle carceri maschili. Ma una vita dietro le sbarre significa anche altro: ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima, senza contare poi il problema dei bambini detenuti.
Il carcere spoglia le persone, non solo di quella che era la loro vita precedente, ma anche della femminilità, e questo accade perché le detenute devono sottostare a regole plasmate su schemi ed esigenze maschili. Il rischio maggiore in carcere è quello di perdere di vista se stessa, materialmente e psicologicamente, senza potersi ritrovare, neppure in un’immagine, dato che neanche gli specchi sono permessi, se non quelli minuscoli.
In carcere divieti e limitazioni non riguardano solo la possibilità di muoversi e di agire ma anche di essere, dove si scontano ulteriori pene e forse quelle più crudeli, come il controllo dei sentimenti e delle emozioni.
Un luogo nel quale, oltre alla libertà, all'intimità, alla soggettività, si viene private fin dall'ingresso delle piccole e grandi cose che sono parte della vita di una persona, che contribuiscono a renderla se stessa, a sorreggerla nell'identità e nella femminilità.
Non a caso la sofferenza psichica è molto diffusa negli istituti penitenziari, soprattutto con disturbi legati a stress post-traumatico e secondo alcune ricerche riguarda circa l'80 per cento delle detenute. Studi dell'Unione Europea dimostrano poi che le donne sottoposte alla detenzione tendono a richiedere un numero maggiore di servizi sanitari rispetto agli uomini, il doppio per quanto riguarda il sostegno psicologico. Sono inoltre molto frequenti episodi di autolesionismo tra le recluse e le conseguenze fisiche di tale disagio sono evidenti: disturbi al ciclo mestruale, ansia, depressione, ma anche anoressia e bulimia.
Una delle possibili cause di tutto ciò è rappresentata sicuramente dall'inefficienza del sistema di giustizia penale nel riprogettarsi sulla base delle "specificità femminili".
Tenere presente cosa significa essere donna della popolazione carceraria vuol soprattutto dire garantire loro maggiore protezione e sicurezza.
Se la mancanza di spazio, la scarsa igiene e il sovraffollamento appartengono purtroppo all'intera comunità carceraria, per le donne ci sono esigenze fisiche, affettive ed emotive dai connotati molto dolorosi. Spesso relazioni interrotte, separazioni, distacchi coatti dal resto della famiglia, ma in particolare dai propri figli.
Il dramma delle madri carcerate è senza dubbio uno degli aspetti più gravi, nel caso il piccolo condivida la detenzione all'interno dell'istituto penitenziario, ma anche quando è affidato fuori, la maternità è costretta a subire una violenta e immediata interruzione.
Per gran parte di loro i figli sono forse il capitolo più doloroso, ad oggi sono una cinquantina quelli che vivono "dietro le sbarre" insieme alle proprie madri.
Anche se non ne hanno colpa, questi bimbi devono trascorrere i primi 3 anni di vita dietro le sbarre, in spazi fatiscenti e malsani, alcuni sono nati in prigione, altri sono stati portati dietro le sbarre per non essere tenuti lontani dalle madri. Il giorno del loro terzo compleanno tende a consumarsi il distacco, vengono affidati a parenti oppure messi in istituti, il carcere e la separazione a questa età è impossibile da comprendere, li segnano per sempre.



Ad oggi, nel nostro Paese, si fatica a trovare e mettere in pratica un’alternativa valida. L’Icam, Istituto a custodia attenuata per detenute madri fino a tre anni, nato a Milano nel 2007, è un primo passo avanti: qui una decina di donne, perlopiù straniere, vivono in una struttura dove vigono le stesse regole del carcere, ma in luoghi senza sbarre e controllate da agenti in borghese. La mattina i bimbi vengono portati al nido di zona, mentre le madri rimangono dentro, impegnandosi in attività volte al recupero sociale.
Il Parlamento Europeo, inoltre, ha invitato gli Stati membri a considerare per le giovani madri pene alternative alla detenzione, come ad esempio le comunità, onde evitare che il bambino venga loro sottratto nelle 24/72 ore successive alla nascita, come generalmente succede, o che viva insieme a lei in una struttura carceraria. Questa misura dovrebbe valere anche per le donne partorienti e per i detenuti uomini con a carico figli minori, proprio perché è l’interesse del bambino che ogni Stato deve tutelare, con la salvaguardia dell’intera famiglia.
Inoltre sarebbe necessario aumentare i centri di detenzione femminili e ripartirli meglio sul territorio proprio per facilitare il mantenimento dei legami familiari. Le istituzioni carcerarie dovrebbero adottare norme più flessibili per quanto riguarda frequenze, durata e orari di visita e le sale di incontro dovrebbero essere più accoglienti in modo da rendere le visite tra familiari piacevoli e meno “intrise” della cupa atmosfera carceraria.
E dopo il carcere? Non da ultimo, le istituzioni dovrebbero garantire a tutti i detenuti, uomini e donne, possibilità di impiego adeguatamente retribuite e corsi di alfabetizzazione, istruzione, formazione professionale, adeguati alle esigenze del mercato di lavoro.
In particolare il Parlamento invita tutte le istituzioni ad usare particolare attenzione per quanto riguarda il reinserimento nella società degli ex detenuti, attuando misure di assistenza durante e dopo la detenzione. Soprattutto le donne madri e le minorenni, una volta uscite dal carcere, dovrebbero essere aiutate per la ricerca di un lavoro e di un alloggio, tutto questo per salvaguardare l’interesse dell’intera famiglia e soprattutto per evitare situazioni di esclusione sociale che spesso sono la causa di nuove reclusioni.
Qualcuno potrebbe dire che queste persone il carcere se lo sono cercato e meritato ed è vero nella maggior parte dei casi, ma sono anche convinta che, come uomini e donne appartenenti ad una comunità civile, questo tipo di affermazione non può bastarci, perchè non porterebbe a niente, solo ad altro dolore, vendetta, rabbia.
Bisogna invece credere nelle possibilità dell'uomo, sempre, credere e crearle, lavorare affinchè si abbiano le seconde opportunità per riconquistare se stessi e la propria vita, per riorganizzarsi e reagire alla sofferenza quando si è colpiti e schiacciati. Bisogna vivere e cercare di abbattere le nostre sbarre, soprattutto quelle mentali.
Vorrei concludere dando spazio alle parole di una detenuta, le quali, spero, riescano ad irrompere nelle nostre vite e a farci respirare il dolore e l'ingiustizia che ogni donna vive in carcere:
Io sono entrata qui dentro quando ero giovane. Quando vado in permesso e mi vedo finalmente tutta intera allo specchio, mi ritrovo improvvisamente vecchia. Io la possibilità di vedere la mia faccia invecchiare non ce l’ho avuta, non ho visto il mio viso cambiare giorno dopo giorno. E ora non so più che donna sono”.

Dott.ssa Valentina D'alessio
Laureata in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus