lunedì 30 novembre 2015

ALLENARE I FIGLI ALLA FELICITÀ

Si dice che il mestiere del genitore sia il più difficile del mondo perché non ci sono corsi che possano insegnarlo e perché non esistono regole universali su come prendersi cura dei figli.
E’ quindi impossibile diventare dei buoni genitori?
La risposta è no! Si può diventare buoni genitori aiutando i propri figli a conoscere le EMOZIONI.
Le emozioni svolgono un ruolo fondamentale nella nostra vita. La capacità di riconoscere, di comprendere e di gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle degli altri sono ingredienti indispensabili per diventare adulti felici e realizzati.
Il compito principale del genitore è quindi quello di aiutare i figli a sviluppare queste capacità, diventando “l’allenatore” della loro intelligenza emotiva. [John Gottman, 1997]
L’intelligenza emotiva è determinata in parte dal temperamento, ovvero dai tratti di personalità innati, e in parte dalle interazioni dirette con i genitori e dal modello che essi offrono al bambino.

COSA FA UN ALLENATORE EMOTIVO?

L’allenatore emotivo è sensibile alle emozioni del bambino, anche a quelle più impercettibili, le sa riconoscere, ascoltare e attribuisce loro un valore. Le emozioni spiacevoli, come la rabbia, la paura e la tristezza, rappresentano un’occasione di intimità e di crescita. Di fronte ad un’emozione di questo tipo, il genitore-allenatore non è confuso o sbrigativo e rispetta il figlio, non offrendogli soluzioni o distraendolo da ciò che sta provando. [John Gottman, 1997]


Molti genitori liquidano le paure e le preoccupazioni del bambino come se fossero poco rilevanti. “Non c’è niente di cui aver paura” diciamo a un bambino di cinque anni spaventato dal buio della sua cameretta. Una risposta di questo tipo, che fornisce una spiegazione logica e razionale alla manifestazione di una comune paura infantile, impedisce al bambino di sentirsi ascoltato. La paura non scompare solo perché un genitore pensa che non ci sia una ragione valida per provarla. Inoltre, se diciamo a un bambino come deve o non deve sentirsi (“Non essere triste”, “Smettila di piangere”), egli perderà fiducia in ciò che prova e crederà meno in se stesso. I bambini hanno scarsa esperienza di vita e quindi potrebbero sentirsi sopraffatti da un’emozione senza sapere come uscirne. Noi ad esempio sappiamo che il dolore per la morte di un animale caro, per quanto intenso, è destinato a scemare fino a scomparire. Il bambino non lo sa, perché per la prima volta nella sua vita si trova a fare i conti con questa esperienza.
Se facciamo finta che un’emozione non ci sia o se la ignoriamo perché non siamo in grado di riconoscerla, essa non scomparirà. Sintomi di squilibri emozionali nei bambini possono manifestarsi attraverso il comportamento o i sintomi, come ad esempio il mangiare troppo, la perdita di appetito, gli incubi notturni, i dolori di pancia, il mal di testa, difficoltà di concentrazione o iperattività.
Le emozioni negative si “sciolgono” solo quando i bambini possono parlarne, dare loro un nome e sentirsi compresi.
Di fronte all’espressione della paura del buio, un genitore-allenatore potrebbe ad esempio dire: “Raccontami bene che cosa ti fa tanta paura”. Per fare questo il genitore deve mettersi nei panni del bambino, cioè sforzarsi di vedere il mondo dal suo punto di vista, e deve riconoscere che le esperienze negative possono rappresentare un’occasione per stare vicini al proprio figlio e per aiutarlo a crescere meglio. Se vediamo un valore nelle emozioni negative, abbiamo più pazienza e siamo più disponibili a trascorrere del tempo con un bambino che fa i capricci o che diventa aggressivo.
L’ascolto e l’empatia sono quindi due ingredienti fondamentali dell’allenamento emotivo. Il passo successivo è quello di fornire ai figli le parole per dare un nome a ciò che stanno provando. In questo modo potranno trasformare una sensazione amorfa, spaventosa e sgradevole in qualcosa di definibile, con dei contorni precisi, come tanti altri elementi della vita. La tristezza, la paura, la rabbia non saranno più dei “mostri enormi”, ma delle esperienza comuni delle quali è possibile parlare e che possono essere gestite.
Un bambino molto arrabbiato potrebbe diventare aggressivo e picchiare il compagno di banco, oppure un altro bambino triste potrebbe piangere in maniera disperata senza sapere come fare a calmarsi o a confortarsi.
Dobbiamo ricordarci che tutte le emozioni sono accettabili e hanno ragione di esistere, ma non tutti i comportamenti lo sono. I bambini e i ragazzi devono perciò capire che il problema non è nei sentimenti, ma nei comportamenti “usati” per esprimerli. Sarebbe però inutile punire o bloccare un comportamento senza comprendere quali emozioni vi sono dietro.
Quindi, dopo aver scoperto come si sente e quali problemi hanno provocato una sensazione spiacevole, i bambini devono capire che cosa possono fare. Il genitore allora dovrà fornirgli una guida per trattare i sentimenti, per trovare un modo appropriato per padroneggiarli, ponendo dei limiti a comportamenti eccessivi o dannosi . Dire ad un ragazzo che ha ragione a sentirsi così ma che ci sono modi migliori per esprimerlo, lo aiuterà ad avere fiducia in se stesso e a percepire un senso di controllo sulla propria esistenza.
E’ importante astenersi da un intervento pressante. Il genitore-allenatore non si sente obbligato a sistemare ogni cosa che non funziona nella vita dei figli, anche se può essere difficile osservare a distanza e senza intervenire un figlio mentre si destreggia tra i problemi. Affinché un bambino e un ragazzo si sentano efficaci e soddisfatti delle conclusioni a cui giungono, è necessario incoraggiarli a generare da soli delle idee e delle ipotesi, sempre nel rispetto della loro età. A volte, quando non ci sono soluzione, come ad esempio per la morte di un animale o di una persona, l’obiettivo può essere quello di riuscire ad accettarne la perdita.

L’IMPORTANZA DI AVERE UN MODELLO

L’allenamento emotivo avviene anche attraverso l’esempio. I genitori dovrebbero rappresentare dei modelli per i figli e non temere di mostrare le proprie emozioni. Possono diventare tristi, piangere, arrabbiarsi, perdere la pazienza e preoccuparsi, perché hanno confidenza con le loro emozioni e perché non ne vengono sopraffatti. Sanno mettere in luce in chiave positiva anche le emozioni spiacevoli. Riconoscono, ad esempio, l’utilità della tristezza, come occasione per rallentare e per prestare più attenzione a se stessi e a quanto accade nella propria vita. Per un figlio vedere il genitore che intraprende una discussione accesa e poi risolve amichevolmente le divergenze rappresenta una grande occasione di crescita, una lezione sulla possibilità di gestire i conflitti preservando i legami affettivi. Ovviamente, perché tutto ciò avvenga, è necessario che i genitori stessi abbiano sviluppato a loro volta una buona intelligenza emotiva.

QUALI SONO I VANTAGGI DELL’ALLENAMENTO EMOTIVO?
I bambini e i ragazzi allenati emotivamente sono figli più flessibili ed elastici. Anche loro provano la tristezza, si arrabbiano o si spaventano in circostanze difficili, ma hanno maggiore capacità di ritrovare la calma, la serenità e di riprendersi dai fallimenti. Il genitore non li ha protetti dallo sperimentare emozioni spiacevoli, dal soffermarsi in situazioni emotivamente pesanti, ma li ha accompagnati in questo percorso. Grazie a questa esperienza, i figli hanno imparato a regolare i propri sentimenti, a fidarsi di se stessi e a risolvere i propri problemi. Possiamo quindi dire che l’intelligenza emotiva non impedisce ai figli di soffrire, ma rappresenta una difesa e una risorsa contro gli eventi della vita.

FONTE:https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-genitori-figli/601-allenare-figli-felicita

giovedì 26 novembre 2015

Gaslighting – Quando l’amore fa male!


Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone che devono usare le parole.
Philip K. Dick

L’amore è una bellissima parola, essere in coppia è una fantastica avventura, ma non tutte le avventure arrivano alla scoperta del loro personale tesoro, alcune sono dolorosi cammini fatti di sofferenza, malessere, ferite dell’anima che poi è difficile curare.  Nella mia esperienza di terapeuta, posso dire che sono molte le persone che arrivano, sole, a chiedere aiuto per salvare la loro coppia e che poi scoprono che la loro coppia è il problema. Che il malessere, che spesso il partner ha lentamente fatto scorrere sotto pelle, è della relazione e non un “problema” dentro il singolo.  Ma quando riescono a chiedere aiuto, significa che qualcosa dentro di loro ha già cominciato a funzionare nel verso giusto, che ancora hanno fiducia in un possibile cambiamento e, seppure la domanda è sbagliata “Voglio essere migliore per lui!” la risposta che è possibile costruire è giusta “Ho fiducia in me!”. Perchè la manipolazione nella coppie specialmente  a danno delle donne, è un problema spesso presente, anche se non sempre, fortunatamente, in forme estreme.
La fiducia in noi stessi, che spesso cerca nell’altro una conferma, è la cartina tornasole che ci indica il grado di salute dentro la relazione. Essere in due deve essere simbolo di benessere e non affogarci di dubbi sul nostro valore. Ma capita che si cerchino in coppia soluzioni e risposte a come noi ci sentiamo nel mondo e quando siamo più fragili può accadere che, incontrando la persona sbagliata, si diventi vittime, si permetta alla relazione di abusare di noi, emozionalmente e poi anche fisicamente. La violenza in questi casi acquisisce moltissimi volti, uno di questi è la manipolazione mentale-emotiva che un membro della coppia attua perversamente sull’altro e che tecnicamente, nella letteratura clinica, viene chiamata “gaslighting”.  Una forma di violenza psicologica che deforma la percezione e la memoria. Potentissima perché gioca con il potere della relazione, chi agisce questa forma di violenza è affascinante, inizialmente coinvolge la vittima in relazioni emotivamente importanti per poi, passo dopo passo, mettere in dubbio la sanità mentale dell’altro. Vengono messe in atto piccole bugie rese credibili, qualcosa che viviamo con paura ci viene detto che semplicemente “No, non è accaduto.” 
Questo suggerisce  alla vittima di non aver valore, di non potersi fidare delle proprie emozioni e percezioni e lentamente, disorienta, ferisce, avvicina alla follia.  La violenza di questo tipo, toglie a chi la subisce la possibilità di muoversi, di pensare, di capire. Se non ci fidiamo più di noi stessi, non siamo più autonomi. E da soli non possiamo che affidarci totalmente all’altro, che invece sembra così sicuro e dice di amarci. Tutti vogliamo essere amati, solo che esistono modi sani e altri terribilmente pericolosi per avere la sensazione di essere in due. 
Gaslighting, da cui il nome di questo tipo di violenza, era un film del 1944, tradotto in italiano con “Angoscia”. Il film, del regista americano Georg Cukor mette in scena la violenza tipo. Tratto dalla pièce “Gas Light” dello scrittore inglese Patrick Hamilton (1938), è la storia di Paula (Ingrid Bergman)e Gregory (Charles Boyer), lei la vittima, lui l’affascinante carnefice. Dopo un matrimonio lampo e tre mesi fantastici tutto comincia a cambiare. Rumori, abbassamenti di luce, sparizioni di oggetti, piccole cose spaventano la giovane moglie ma nessuno le crede quasi fino alla follia. La donna verrà salvata infine da un attento ispettore. Questo perfetto dramma psicologico, ci palesa come la vittima diventi complice del suo persecutore perché non abbastanza forte da credere in se stessa, tutto diventa dubbio e il malessere è talmente forte da rendere questo tipo di rapporto la tortura peggiore, purtroppo terminando a volte con la morte della vittima. Tutto diventa nebuloso, i ricordi anche belli svaniscono, il dubbio, la paura sono i compagni di ogni giorno. Riporto uno stralcio di conversazione tra Paula e Gregory:
“Non ti chiedo di comprendermi.Tra di noi ci sono sempre stati quei gioielli,come un fuoco.Un fuoco che mi consumava e che ci separava.Quei gioielli io li ho sempre desiderati,non so perchè…Ti ricordi i nostri primi giorni insieme?Ti ricordi?”
“Sono arrivata a credere di averli solo sognati quei giorni.”
Quello che si attua inizialmente è il turbamento della mente. Io non posso credere a quello che vedo, provo, sento. Di solito il gasligher, il persecutore, si presenta gentile, adulatore, fa sentire importanti le sue vittime, le porta ad affidarsi a lui e comunica poi loro, quanto siano perse, poca cosa, senza di lui. E’ un incontro di storie infelici.Dove nessuno dei due può vivere una storia di coppia serena e la fragilità incontra l’intimidazione, passando dall’incredulità alla depressione, alla follia come mancanza di speranza nel miglioramento delle cose. Capita spesso che questa violenza sottile, si manifesti nelle coppie adultere, dove chi tradisce, indebolisce l’altro per nascondere la relazione extraconiugale che vive. I messaggi che vengono lanciati in continuazione si insinuano fino all’essenza della persona, minandone la possibilità di salvezza. Magari si parte con ferite legate al fisico  (“Non sei bella!”, “Sei troppo grassa, brutta….”), si comincia, poi,a sminuire l’altro con attacchi alle sue capacità in tutti i campi anche all’esterno, con gli altri. SI passa da critiche alla cucina al lavoro, dalle relazioni alle piccole cose ( “Non sa fare niente”, “E’ scema!”, “Poverina!”, “Non è capace di….”, “Fa un lavoro che potrebbe fare chiunque..”). La vittima si sente sempre più inetta e lentamente prende per buoni gli anatemi del partner che vanno da ” Se ti lascio io non ti vorrà nessuno”, “Non sei amabile”, “Non esisti….” ma tutti siamo degni di amore e amabili, quando questo messaggio arriva alle nostre orecchie e lo si reputa giusto, è il momento di allontanarsi, qualcosa sta accadendo di pericoloso.
Una comunicazione distorta rinforza queste relazioni, il persecutore diventa un dio perfetto da ammirare e la vittima qualcosa in meno di una persona, si tratta di relazioni narcistico-perverse dove il manipolatore agisce talmente con capacità che finisce con il rendere la vittima senza alcuna difesa o resistenza, completamente dipendente, pronta anche a morire. A nulla varranno i tentativi di difesa durante i quali le vittime tentano, timidamente, di proteggere la loro interezza, presto cederanno in un crollo depressivo, lasciando al gasligher tutto il potere sulla relazione.
Ci sono tipo diversi di persecutore, di cui il peggiore è il manipolatore affascinante, proprio per il fascino che esercita sulla vittima. Ma abbiamo anche il bravo ragazzo o l’intimidatore. Ma al di là delle sfumaturetutti agiscono sulla persona che hanno davanti manipolandola, fino a farla sentire pazza. In un articolo di agosto sul sito The Stir dal titolo “10 Signs Your Man is Gaslighting You to Male You Seen Crary” viene, in questa direzione, tracciata una lista di punti, dieci appunto, da tenere a mente, domande da farsi quando si sente di star perdendo il contatto con la realtà, per capire se stiamo vivendo una situazione di violenza di questo tipo. Una lista molto semplice, ma diretta e utile che consiglia di non fare cose che fanno sentire strani e non a proprio agio, come mentire per la propria coppia. L’articolo mette in guardia, segnala come, tutte le volte che viene detto ” Sei paranoica“, “Qualcosa  non va in te!”, ” Sei troppo ormonale!”, quando ci si trova ad avere comportamenti che non si sentono propri e che non piacciono ( come controllare l’altro o cercare prove di qualcosa),quando si mettono in dubbio le proprie percezioni ma si accettano quelle dell’altro per vere anche quando non lo sembrano, fino a sentire di sbagliare anche nel ricordare, fino a sentirsi folli, depresse, terribilmente infelici. Ecco, se qualcosa di quanto elencato capita, è il momento di non aspettare ma chiedere aiuto e cercare di capire quanto sia compromessa la nostra autonomia, integrità emotiva, e cominciare a costruire una nuova forza, capace di respingere questi attacchi e allontanarsi dal partner.
In questi casi è sempre meglio avere, almeno inizialmente, il sostegno di un professionista che aiuti nel recupero della perduta fiducia, che ricostruisca il rapporto con le nostre percezioni e permetta alla vittima di uscire da questo gioco perverso per cominciare a stare meglio. Raramente queste relazioni possono arrivare a funzionare, troppo malate per imparare una relazione nel benessere, anzi, se necessario, a secondo della gravità, sarà invece il caso di attivare una seria protezione della parte fragile della coppia anche a livello giuridico.
FONTE:

LA SINDROME DI SAMO E IL VIRUS HIV


La sindrome di Samo è il termine con cui alcuni studiosi italiani denominano un disturbo che coinvolge l’area dell’affettività, della sessualità e della relazionalità dell’individuo che ne è colpito.
L’affezione si presenta come un  attaccamento ad un partner malato e una predilezione per i rapporti sessuali con soggetti portatori di malattie contagiose o, solitamente, affetti da patologie sessualmente trasmissibili, senza  alcuna preoccupazione per le pratiche di protezione dal rischio di contagio. Recentemente, alcuni programmi televisivi hanno messo di nuovo luce su questa patologia, intervistando persone che volontariamente cercano persone affette da patologie sessualmente trasmissibili, per lo più da HIV, cercando con esse rapporti sessuali, nella speranza di contagiarsi. L’aspetto che più colpisce, e che può a tratti sembrare assurdo, è che molti di essi non conoscono fino in fondo le conseguenze a cui il contagio da HIV può portare, hanno invece sommarie nozioni che li portano a concludere, erroneamente, che il virus da HIV sia qualcosa che si può tenere sotto controllo assumendo alcune pastiglie in maniera costante.
Probabilmente le innumerevoli morti, le campagne di prevenzione, i costi sanitari, non sono di interesse per le persone che cercano il contagio. Il loro interesse principale, a quanto dicono, è relativo alla ricerca di rapporti sessuali non protetti, senza più avere “il pensiero” di indossare il preservativo o di adottare altre forme precauzionali durante i rapporti sessuali occasionali e non.


La cosa che più spaventa è che questi individui, una volta contagiati, sono potenzialmente pericolosi per gli altri, oltre che per sé stessi. La sindrome di Samo  può essere associabile alla patofilia o nosofilia (amore per la sofferenza, malattia).  In una prospettiva psicodinamica, secondo alcuni autori, si può ipotizzare infatti che, alla base del rapporto con la persona portatrice dell’affezione contagiosa, possa esserci un forte legame affettivo e, nel caso dell’aids e delle  malattie sessualmente trasmissibili, si può osservare che il virus viene percepito, paradossalmente,  come un alleato in questa ricerca di un rapporto simbiotico con la persona affetta; l’infezione, quindi, diventerebbe,  inconsciamente, un elemento di legame per la coppia. Il preservativo, di conseguenza, simboleggia un elemento intrusivo nel rapporto e il desiderio di proteggersi rappresenterebbe una forma di tradimento all’intimo legame (Brancatella R., Curatolo A., Di Lernia T., Costi G.,(1997)).
Va anche considerato che essere contagiati volontariamente, in questo caso, significa anche controllare l’angoscia di esserlo per sbaglio.
Di recente sono nati siti e chat dove la maggior parte degli utenti si iscrive con l’obiettivo di incontrare partner sieropositivi.

Gettare luce su questo fenomeno, favorire programmi di educazione sessuale e sui rischi legati alle patologie sessualmente trasmissibili, deve essere un compito primario per le istituzioni e per gli operatori del settore.

FONTE:http://www.newspsicologia.com/2015/01/16/la-sindrome-di-samo-e-il-virus-hiv/

mercoledì 25 novembre 2015

Psicologia e percezione: come sopravvivere alla paura della jihad al tempo dell’ISIS


Dall’11 settembre 2001 sino al recente attacco al Bataclan a Parigi, Il nostro mondo occidentale è sembrato progressivamente sempre più disorientato, mentre molte delle certezze su cui esso si reggeva hanno iniziato a incrinarsi pesantemente. Gli europei, così come gli americani, si sentono sempre meno sicuri a casa loro, nelle piazze, nei mercati, al cinema o al concerto: in tutti quei luoghi familiari dove ci sono più persone che si riuniscono.
In questi giorni, anche in Italia si sta generando una vera e propria ondata di preoccupazione, se non di paura, a causa della quale molte persone hanno rinunciato a viaggi già programmati da tempo, a passeggiate in pizzeria con gli amici. In qualche caso false notizie su possibili imminenti attentati si sono diffuse molto rapidamente, propagando panico e spavento. Falsi allarmi o allarmi infondati si susseguono in queste giornate in quasi ogni città italiana. A volte può bastare uno zainetto dimenticato nel vagone di un treno per insospettire qualcuno e mobilitare gli artificieri.
A Parigi persino Disneyland ha chiuso per alcuni giorni a causa della scarsa affluenza di pubblico ma soprattutto del terrore di attacchi terroristici, i musei sono deserti, mentre le persone per darsi coraggio organizzano degli incontri di piazza grazie al tam-tam dei social network. Anche in Italia alcuni genitori preferiscono in questo momento non far uscire i propri figli, molte zone di ritrovo sono più vuote del solito e la visibile allerta delle forze armate dislocate in quasi tutti i luoghi pubblici delle grandi città, certo non contribuisce a far sentire le persone più serene.
Ma questa percezione di estremo pericolo per l’incolumità nostra e dei nostri cari, è davvero fondata?
C’è da premettere che il Ministro dell’Interno, il 22.11.2015, ha dichiarato che “nessun Paese è a rischio zero” per gli attentati. Se ne deduce che quanto avvenuto a Parigi, o negli Stati Uniti nel 2001, potrebbe accadere anche da noi in Italia. 
Ciò significa che ciascuno di noi dovrebbe mettere in conto di poter restare vittima di un attentato? Probabilmente sì, ma non più di quanto sia probabile restare vittima di un incidente ferroviario, per il quale però le nostre preoccupazioni sembrano notevolmente inferiori. Eppure le vittime di incidenti ferroviari, solo nel nostro Paese, sono state circa 500 negli ultimi 5 anni e 101 solo nel 2014 (61 morti e 40 feriti in gravi condizioni).
La psicologia suggerisce che l’essere umano è portato a sottostimare o sottovalutare alcuni problemi e amplificarne altri. Ciò accade specialmente quando si ritiene di avere un certo “controllo” sulla situazione problematica, come ad esempio quando si guida un’automobile. È infatti noto che si tenda ad avere più paura dell’aereo che di mettersi alla guida di un’auto. Nonostante nel secondo caso le probabilità di incidente siano molto maggiori che nel primo, si ritiene erroneamente di diminuire il nostro rischio controllando noi direttamente l’auto piuttosto che affidandoci alla guida di un pilota che non conosciamo e che non abbiamo mai visto. In pratica accade che illusoriamente si reputi meno rischioso ciò che si riesce a gestire personalmente.
I numeri però raccontano una storia differente. Se poi si parla di vite umane, essi rischiano di apparire impietosi.
Nei paesi europei (rapporto UE marzo 2015), durante il 2014 si sono contati 25.700 morti e 200.000 (duecentomila) feriti gravi a causa di incidenti automobilistici: in pratica 70 morti e oltre 500 feriti gravi ogni giorno. Nelle sole strade italiane nel 2014 hanno perso la vita più di 3300 persone, 578 delle quali erano pedoni.
Ogni anno 83.000 italiani muoiono per effetto del fumo, questo fa dire al Ministero per la Salute (mag.2015): «Il tabacco provoca più decessi di alcol, aids, droghe, incidenti stradali, omicidi e suicidi messi insieme. L’epidemia del tabacco è una delle più grandi sfide di sanità pubblica della storia. L’OMS ha definito il fumo di tabacco come "la più grande minaccia per la salute nella Regione Europea"»
Un altro dato che spesso si tende a rimuovere dalla nostra coscienza collettiva è quello secondo cui, a leggere gli ultimi dati provvisori Inail, in Italia soltanto nei primi 8 mesi del 2015 ben 752 persone hanno perso la vita a seguito di infortunio subito sul luogo di lavoro: 94 morti “bianche” al mese.
Tutto questo senza volersi soffermare sulle vittime della criminalità e della mafia, che quotidianamente colpiscono uccidendo e ferendo centinaia di persone ogni anno.
La nostra paura di restare vittime di un attentato terroristico è dunque ampiamente sovradimensionata rispetto alle reali probabilità che ciò accada proprio a noi.
Nonostante questa evidenza, l'essere soggetti a scelte di altri individui non controllabili e pericolosi, contribuisce non poco a diffondere una percezione di impotenza. Come potremmo, infatti, agire su persone che non siamo in grado di controllare in alcun modo e la cui cultura sembra sfuggire a ogni nostro tentativo di comprensione? Occorre aggiungere, inoltre, che Il cosiddetto “pensiero magico” (Piaget, 1955) secondo cui il bambino struttura la propria capacità di rappresentazione della realtà, si ritrova in forme anche massicce nell’adulto. Non sempre, difatti, il nostro pensiero si fonda su una logica rigorosa e una stabile capacità ipotetico-deduttiva, bensì ciascuno di noi, tende a operare scelte più in base alle proprie emozioni, percezioni e sensazioni che rispetto all’esame obiettivo dei dati disponibili(Giusberti e Nori, 2000). Ecco anche perché molti di noi temono più la jihad che il recarsi al lavoro in automobile, o l’essere disattenti rispetto alle più elementari norme di sicurezza sul lavoro.
Diffondere paura, far credere di poter colpire chiunque e dovunque, lasciare che a orientare le nostre scelte quotidiane siano le emozioni più cupe piuttosto che valutazioni razionali, ottenere che le nostre reazioni siano sempre più aggressive, spingerci a generalizzare la nostra paura verso chiunque sia differente da noi per fede e per cultura: di tale genere sono precisamente gli obiettivi dei terroristi.
Non va quindi sottovalutato il pericolo terrorismo internazionale, che però in questi suoi effetti psicologici può essere persino più devastante della deflagrazione di una bomba.
FONTE:
http://www.medicitalia.it/news/psicologia/6170-psicologia-percezione-sopravvivere-paura-jihad-tempo-isis.html?refresh_ce

QUELLA MUSICA NEL CREPUSCOLO. MUSICOTERAPIA E ALZHEIMER


"Tu sei la musica, fino a che la musica dura", scriveva criptico e poetico il grande T. S. Eliot.
Affermazione lapidaria, forse, ma anche potente: noi come nostra musica, nostra stessa opera creativa - noi come fautori e autori.
Ma non è necessario essere orchestrali, per concepire la forza e l'importanza della musica, anche fuor di metafora. Nemmeno è necessaria una vena artistica per emozionarsi di fronte a delle note, nel bel mezzo dell'estasi di un pianoforte, per esempio.
Basta esser esseri umani.
La musica è con noi da sempre e il cervello stesso è costruito in modo tale da amarla, sentirla, cercarla: un aspetto toccante e misterioso dell'evoluzione, perché - per quanto la musica faciliti la comunicazione e avvicini - è spesso un'esperienza solitaria e privata. 
Trascinante, per molti.
E anche se l'amusia - un difetto nella percezione della musica che rende impossibile l'apprezzarla - esiste, la maggior parte di noi è spesso alla ricerca di una canzone adatta, magari della nostra canzone.
Che una realtà così preponderante abbia anche una funzione terapeutica non è osservazione innovativa o arguta.
La musicoterapia è nella sua essenza pressoché istintiva, ma nel tempo la sua evoluzione e il suo consolidarsi come disciplina ci hanno regalato nuovi spunti e ricerche.
Il celebre neurologo Oliver Sacks afferma che la musica è il più efficace farmaco non chimico, e viene in mente l'aneddoto di un testimone che vide le deformate dita del celebre violoncellista Pablo Casals (affetto da artrite reumatoide) riprendere per un momento un poco di vigore, quel tanto che bastava per suonare - l'arte come superamento di se stessi nelle avversità.
"La musica crea una certa vibrazione che indiscutibilmente produce una reazione fisica. Alla fine troveranno la vibrazione giusta per ogni persona e la useranno" previde il pianista George Gershwin.
Non mi voglio qui dilungare sullo sviluppo della musicoterapia: la mia intenzione è gettare uno sguardo su una sua applicazione, ossia sul suo utilizzo coi malati di Alzheimer, notoriamente la forma di demenza più nota, un calvario nel quale la persona, la sua identità e il suo essere tra noi evapora, crudelmente, sottoponendo il paziente e i suoi caregivers a un'ordalia.

Quindi non sto per affermare che la musica compia l'impossibile, ma nel contesto delle cure palliative essa può fare la differenza, senza illusioni, ma con un poco di conforto.
J. Cohen-Mansfield, psicologa del Research Institute of the Hebrew Home di Washington, ha osservato (la pubblicazione è apparsa sulla rivista "Science") come parte dell'aggressività dei pazienti con Alzheimer si acuisca negli stati di solitudine e isolamento sociale in cui spesso gli stessi si trovano; in tal senso, la presenza della musica, divenendo occasione di socializzazione, può essere d'aiuto.
Il cantare, il suonare, o anche solo il verbalizzare, l'applaudire o l'ascolto in contesto di gruppo, possono dare sollievo, senza considerare la mobilitazione fisica che si può in alcuni casi avere.
Ma gli effetti più profondi sono ad altri livelli.
Noi tutti sperimentiamo il potere di una canzone: ed emotivamente e per la sua abilità nel riportarci alla memoria un momento, un ricordo - l'esaltazione mnemonica insita nella musica, il suo smuovere l'emotività e ciò che a essa è connesso.
Una nota esperta, la dottoressa Concetta Tomaino, responsabile dell' Institute for Music and Neurologic Function (organizzazione no profit del Beth Abraham), ha realizzato uno studio in cui 45 pazienti newyorkesi affetti da demenza di medio e grave grado sono stati sottoposti tre volte a settimana per dieci mesi a un'ora di musicoterapia. Ciò ha portato a un miglioramento fino al 50% nei risultati di un test di funzionamento cognitivo somministrato prima e dopo l'iter.
Un dato interessante è la scelta dei brani da far ascoltare, che non è casuale: oltre a tener in considerazione i gusti pre-morbosi del paziente, si è osservata una miglior reazione laddove si mettano a disposizione brani che hanno segnato positivamente l'esistenza dell'individuo, soprattutto quelli che hanno accompagnato la sua adolescenza e prima età adulta, periodo notoriamente denso di tempeste interiori ed eventi.
Naturalmente è richiesta la presenza di musicoterapisti e di un setting adeguato, oltre che di altra ricerca, ma è comunque un dato interessante.
La musica riguarda l'emotività, la cognizione, il corpo, la coordinazione, la memoria e chi siamo e siamo stati - "Come distinguere la danza dal danzatore?" si domandava senza aver risposta W. B. Yeats.


Il dottor Ardash Kumar della School of Medicine dell'Università di Miami ha voluto studiare la chimica del cervello dopo sessioni di musicoterapia: dopo un mese di terapia si notava un incremento della melatonina (importante tra l'altro per la regolazione dei ritmi circadiani) che permaneva per sei settimane, e un aumento dei neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina, che però scemava in fretta.
Non un miracolo appunto, visto che spesso si parla anche di un fantomatico e opinabile "effetto Mozart" che sembra panacea per ogni male.
Purtroppo non è così: ma restituire un poco di quiete e far ritornare indietro anche per pochi passi qualcuno che si ama e si è perso nelle nebbie della demenza, è già qualcosa che merita opportunità e approfondimento.


FONTE:https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-psicologia-dintorni/497-musicoterapia-alzheimer

ANESTETIZZARE LA NOSTRA EMOTIVITÀ NON SERVIRÀ AD ESSERE FELICI

Nella società contemporanea esprimere le proprie emozioni è sinonimo di debolezza. Ma in realtà la vera forza di una persona sta nel proprio mondo emotivo, nel riuscire ad essere consapevole di se, presente a se stesso in ogni momento della propria vita.
Siamo proprio sicuri che il modo migliore per affrontare la vita e le difficoltà che incontriamo sia quello di avere “sangue freddo” e quindi anestetizzare la nostra emotività?
Spesso sento genitori incoraggiare i figli dicendo “non bisogna aver paura”, mariti dire alle mogli “non devi rimanerci male, sei troppo sensibile”, persone rivolgersi ai loro compagni dicendo “che ti arrabbi a fare?” Come se il miglior consiglio da dare per affrontare qualunque situazione sia “evita di provare emozioni, perché fanno male”. Sentire il dolore provocato da un’emozione nelle persone a noi care amplifica in noi quel dolore, ci fa sentire impotenti, ci sentiamo inutili e quindi vorremmo cancellare la fonte del dolore.
Le emozioni sono quella parte di noi più antica che ci aiuta da millenni a sopravvivere,  percependo il pericolo, ci assistono nell’instaurare relazioni, nel raggiungere i nostri obbiettivi, nel superare le difficoltà. Oggi non riusciamo ad accorgersi del lavoro immenso che la nostra parte emotiva svolge per noi, siamo tutti più predisposti a vedere i risultati piuttosto che il come ci siamo sentiti durante il percorso verso il loro raggiungimento. Eppure quello che fa la differenza tra una persona felice e una no, non è quanto oro ha accumulato, quanto in alto sia arrivata, piuttosto, quanto è stato presente a se stesso nel processo che gli ha permesso di raggiungere la sua meta e, quindi, quanto in ogni suo passo sia stato in contatto con le sue emozioni, ma anche quanto sia riuscito a condividere con persone per lui significative il proprio mondo emotivo, quanto si sia sentito accolto nel raccontare la sua rabbia, tristezza, delusione, gioia, speranza, paura

Il modo migliore per avvicinarci al mondo emotivo dell’altro è provare a sentire ciò che ci dice con il nostro orecchio emotivo. Solo così possiamo incoraggiare un bambino spaventato o ansioso per il primo giorno di scuola: “cosa ti spaventa? Sai che anche io da piccola avevo paura di…” questo modo di parlare di emozioni permette di sentirsi rassicurati e di poter affrontare le paure
Solo così possiamo consolare la moglie rattristata dopo un litigio con una persona importante, perché la sensibilità è un dono per noi e per gli altri, che ci aiuta a “sentire” e quindi a poterci difendere, a poter superare un’empasse. Solo con il nostro orecchio emotivo possiamo entrare in empatia con la rabbia di un uomo che sente di aver fallito, che si è sentito ingiustamente sconfitto…
Una volta un ginecologo, mentre la paziente aveva iniziato il travaglio in sala parto, cercava di rassicurare la madre della donna, preoccupata per la sofferenza della figlia e le disse “signora questa non è sofferenza. Il dolore che prova ora sua figlia la aiuterà a dar vita a suo nipote. È un dolore necessario che indicherà al corpo il modo migliore per partorire, lei può solo starle vicino e incoraggiarla, ascoltando le sue urla. L’alternativa qual è: l’anestetizziamo?


Così è per le emozioni: se noi sappiamo ascoltarle, ci indicheranno il modo migliore di affrontare la vita, anche gli eventi più difficili. Se noi invece ci anestetizziamo, rischiamo di non sapere più quali sono le scelte migliori per noi, e avremmo bisogno di qualcuno che operi su di noi, e che ci aiuti a dar vita al nostro futuro.

FONTE:http://www.psicologi-italia.it/psicologia/psicologia-del-benessere/1726/emozioni.html

L'ABUSO INFANTILE




Il termine abuso all'infanzia deriva dall'inglese "child abuse" e, comprende tutti i casi di violenza e maltrattamento che possono verificarsi sia in famiglia che fuori dalla famiglia, causando seri danni al minore.
In base alla definizione del Consiglio d'Europa (1978), possiamo considerare gli abusi sul minore gli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino e attentano alla sua incolumità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale.
Kempe (1978) descrive il bambino maltrattato come un bambino sottoposto a ripetute violenze di varia natura e gravità, da parte di adulti legati alla vittima da naturali rapporti di fiducia e responsabilità.
Similmente per F. Montecchi (1998) si può parlare di abuso fisico o maltrattamento fisico quando "i genitori o le persone legalmente responsabili del bambino eseguono o permettono che si eseguano lesioni fisiche o mettono i bambini in condizioni di rischiarle".
Forniamo di seguito una classificazione degli abusi all'infanzia che comprende: il maltrattamento, la patologia della fornitura di cure e l'abuso sessuale, e che a loro volta si suddividono in altre sottocategorie.


·  Il maltrattamento si suddivide in:

  • maltrattamento fisico: questo tipo di violenza è facilmente individuabile dall'operatore, dato che vi sono sul corpo delle tracce visibili e concrete (ad esempio: lividi, ustioni, traumi cranici, traumi addominali, traumi scheletrici);
  • maltrattamento psicologico: arduo da identificare e da segnalare poichè non lascia segni sul corpo, ma incide in modo devastante a livello dello sviluppo fisico, emozionale, relazionale e psicologico del minore; il maltrattamento psicologico rappresenta allora una parte consistente di quel fenomeno sommerso che lascia nell'ombra la reale consistenza dell'abuso in famiglia.

·  Il problema della fornitura di cure, si suddivide in:

  • Incuria: si verifica in quei casi in cui i genitori, insensibili ai bisogni del proprio figlio, non se ne prendono cura sufficientemente, esponendolo a pericoli, malattie e negligenze di vario genere, condizionando negativamente il suo sviluppo; il bambino, nei casi di incuria, potrà ad es. essere soggetto a malattie croniche senza che venga sottoposto a cure mediche o presenta disturbi della vista, dell'udito, dei denti, senza che vengano presi adeguati provvedimenti da parte dei genitori.
  • Discuria: si manifesta quando dei genitori, pur provvedendo alle cure del proprio figlio, lo fanno in modo inadeguato, non rispettando le esigenze evolutive del bambino e fornendo cure che non corrispondono, per tempi, modi e qualità, a quelle che la particolare fase di crescita che il bambino attraversa.
  • Ipercura: consiste nel prestare cure eccessive al bambino sia nei modi che nella quantità; comprende: l’ Abuso chimico o iatrogeno - tendenza del genitore a somministrare sostanze chimiche o farmacologiche o di altro tipo, al figlio, in misura abnorme e sconsiderata nella convinzione errata e delirante che ne abbia bisogno, ad es. sonniferi, lassativi, neurolettici, diuretici o altri tipi di farmaci o di sostanze innocue quali acqua e sale, che per la quantità con cui vengono assunti dal bambino diventano nocivi o provocano avvelenamento;  la Sindrome di Munchausen per procura in cui il genitore, quasi sempre la madre, attribuisce una inesistente malattia fisica al figlio, e per questo lo sottopone a numerose visite e cure mediche giustificandole sulla base di sintomi e dati anamnestici e clinici da lei stessa inventati o provocati, la giovane età di questi bambini spesso impedisce di verificare verbalmente la malattia; la Medical shopping per procura, una sorta di versione di minor entità della sindrome precedente, il bambino viene sottoposto a continue e sistematiche visite mediche, ad analisi cliniche e controlli specialistici in assenza di un reale disturbo fisico ed è facile riscontrare in questi casi tratti ipocondriaci nel genitore che vive tutte le ingiustificate ansie e paure circa il proprio stato di salute attraverso il corpo "medicalizzato" del bambino.

·Con abuso sessuale si intende:                                                                                
"il coinvolgimento di bambini in pratiche sessuali che essi non possono interamente comprendere e verso le quali sono incapaci di dare un informato e cosciente consenso o che violano tabù sociali circa i ruoli familiari".


Questo significa che sia i bambini che gli adolescenti, intesi come soggetti immaturi e dipendenti, sono abusati sessualmente quando vengono coinvolti da adulti in attività sessuali.La violenza sessuale può essere vissuta sia tra le mura domestiche e praticata dai familiari stessi, da familiari acquisiti, da persone che vivono in casa del bambino, da parenti prossimi e/o lontani (si parla di violenza intrafamiliare) sia fuori di casa, dove gli abusi vengono compiuti da persone esterne alla famiglia (e si parla di violenza extrafamiliare), con pratiche come lo stupro, la pedofilia e lo sfruttamento sessuale dei minori (pornografia, prostituzione infantile). La violenza intrafamiliare è in assoluto la più frequente e diffusa, provoca nel bambino un vero e proprio inquinamento della mente e dei pensieri, fino a comprometterne, nei casi più gravi (quelli a inizio precoce e a evoluzione cronicizzata) la salute mentale (Cottle, 1992). Ciò avviene perché è sempre associato alla violenza psicologica e nella quasi totalità dei casi evolve come degenerazione di modelli comportamentali affettivi, che giungono progressivamente a configurare situazioni di seduzione e passano dalle molestie a veri e propri gesti di violenza sessuale, nei quali il bambino resta imprigionato per la fiducia che egli attribuisce all’adulto al quale è affettivamente legato, per la soggezione che egli incute, per la consegna del segreto che accompagna queste condotte perverse.



Fonte: http://www.psicologiailfilo.it/articolo19.htm