"Tu sei la musica, fino a che la musica
dura", scriveva criptico e poetico il grande T. S. Eliot.
Affermazione lapidaria, forse, ma anche potente: noi
come nostra musica, nostra stessa opera creativa - noi come fautori e autori.
Ma non è necessario essere orchestrali, per concepire
la forza e l'importanza della musica, anche fuor di
metafora. Nemmeno è necessaria una vena artistica per emozionarsi di fronte a
delle note, nel bel mezzo dell'estasi di un pianoforte, per esempio.
Basta esser esseri umani.
La musica è con noi da sempre e il cervello stesso è costruito in modo tale da amarla, sentirla,
cercarla: un aspetto toccante e misterioso dell'evoluzione, perché -
per quanto la musica faciliti la comunicazione e avvicini - è spesso
un'esperienza solitaria e privata.
Trascinante, per molti.
E anche se l'amusia - un difetto nella percezione
della musica che rende impossibile l'apprezzarla - esiste, la maggior parte di
noi è spesso alla ricerca di una canzone adatta, magari della nostra canzone.
Che una realtà così preponderante abbia anche una funzione terapeutica non è osservazione innovativa
o arguta.
La musicoterapia è
nella sua essenza pressoché istintiva, ma nel tempo la sua evoluzione e il suo
consolidarsi come disciplina ci hanno regalato nuovi spunti e ricerche.
Il celebre neurologo Oliver Sacks afferma che la
musica è il più efficace farmaco non chimico, e viene in mente l'aneddoto di un
testimone che vide le deformate dita del celebre violoncellista Pablo Casals
(affetto da artrite reumatoide) riprendere per un momento un poco di vigore,
quel tanto che bastava per suonare - l'arte come superamento di se stessi nelle
avversità.
"La musica crea una certa vibrazione che
indiscutibilmente produce una reazione fisica. Alla fine troveranno la
vibrazione giusta per ogni persona e la useranno" previde il pianista
George Gershwin.
Non mi voglio qui dilungare sullo sviluppo della
musicoterapia: la mia intenzione è gettare uno sguardo su una sua applicazione,
ossia sul suo utilizzo coi malati di Alzheimer,
notoriamente la forma di demenza più nota, un calvario nel quale la persona, la
sua identità e il suo essere tra noi evapora, crudelmente, sottoponendo il
paziente e i suoi caregivers a un'ordalia.
Quindi non sto per affermare che la musica compia
l'impossibile, ma nel contesto delle cure palliative essa può fare la differenza, senza illusioni, ma con un poco
di conforto.
J. Cohen-Mansfield, psicologa del Research Institute
of the Hebrew Home di Washington, ha osservato (la pubblicazione è apparsa
sulla rivista "Science") come parte dell'aggressività dei pazienti
con Alzheimer si acuisca negli stati di solitudine e isolamento sociale in cui
spesso gli stessi si trovano; in tal senso, la presenza della musica, divenendo occasione di socializzazione, può essere d'aiuto.
Il cantare, il suonare, o anche solo il verbalizzare,
l'applaudire o l'ascolto in contesto di gruppo, possono dare sollievo, senza considerare la mobilitazione fisica che
si può in alcuni casi avere.
Ma gli effetti più profondi sono ad altri livelli.
Noi tutti sperimentiamo il potere di una canzone: ed
emotivamente e per la sua abilità nel riportarci alla memoria un momento, un
ricordo - l'esaltazione mnemonica insita nella musica, il suo smuovere
l'emotività e ciò che a essa è connesso.
Una nota esperta, la dottoressa Concetta Tomaino,
responsabile dell' Institute for Music and Neurologic Function (organizzazione
no profit del Beth Abraham), ha realizzato uno studio in cui 45 pazienti
newyorkesi affetti da demenza di medio e grave grado sono stati sottoposti tre
volte a settimana per dieci mesi a un'ora di musicoterapia. Ciò ha portato a un
miglioramento fino al 50% nei risultati di un test di funzionamento cognitivo
somministrato prima e dopo l'iter.
Un dato interessante è la scelta dei brani da far
ascoltare, che non è casuale: oltre a tener in considerazione i gusti
pre-morbosi del paziente, si è osservata una miglior reazione laddove si
mettano a disposizione brani che hanno segnato positivamente l'esistenza
dell'individuo, soprattutto quelli che hanno accompagnato la sua adolescenza e
prima età adulta, periodo notoriamente denso di tempeste interiori ed eventi.
Naturalmente è richiesta la presenza di
musicoterapisti e di un setting adeguato, oltre che di altra ricerca, ma è
comunque un dato interessante.
La musica riguarda l'emotività, la cognizione, il
corpo, la coordinazione, la memoria e chi siamo e siamo stati - "Come
distinguere la danza dal danzatore?" si domandava senza aver risposta W.
B. Yeats.
Il dottor Ardash Kumar della School of Medicine
dell'Università di Miami ha voluto studiare la chimica del cervello dopo
sessioni di musicoterapia: dopo un mese di terapia si notava un incremento della melatonina (importante tra
l'altro per la regolazione dei ritmi circadiani) che permaneva per sei
settimane, e un aumento dei neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina, che
però scemava in fretta.
Non un miracolo appunto, visto che spesso si parla
anche di un fantomatico e opinabile "effetto Mozart" che sembra
panacea per ogni male.
Purtroppo non è così: ma restituire un poco di quiete
e far ritornare indietro anche per pochi passi qualcuno che si ama e si è perso
nelle nebbie della demenza, è già qualcosa che merita opportunità e
approfondimento.
FONTE:https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-psicologia-dintorni/497-musicoterapia-alzheimer
Nessun commento:
Posta un commento