mercoledì 25 novembre 2015

QUELLA MUSICA NEL CREPUSCOLO. MUSICOTERAPIA E ALZHEIMER


"Tu sei la musica, fino a che la musica dura", scriveva criptico e poetico il grande T. S. Eliot.
Affermazione lapidaria, forse, ma anche potente: noi come nostra musica, nostra stessa opera creativa - noi come fautori e autori.
Ma non è necessario essere orchestrali, per concepire la forza e l'importanza della musica, anche fuor di metafora. Nemmeno è necessaria una vena artistica per emozionarsi di fronte a delle note, nel bel mezzo dell'estasi di un pianoforte, per esempio.
Basta esser esseri umani.
La musica è con noi da sempre e il cervello stesso è costruito in modo tale da amarla, sentirla, cercarla: un aspetto toccante e misterioso dell'evoluzione, perché - per quanto la musica faciliti la comunicazione e avvicini - è spesso un'esperienza solitaria e privata. 
Trascinante, per molti.
E anche se l'amusia - un difetto nella percezione della musica che rende impossibile l'apprezzarla - esiste, la maggior parte di noi è spesso alla ricerca di una canzone adatta, magari della nostra canzone.
Che una realtà così preponderante abbia anche una funzione terapeutica non è osservazione innovativa o arguta.
La musicoterapia è nella sua essenza pressoché istintiva, ma nel tempo la sua evoluzione e il suo consolidarsi come disciplina ci hanno regalato nuovi spunti e ricerche.
Il celebre neurologo Oliver Sacks afferma che la musica è il più efficace farmaco non chimico, e viene in mente l'aneddoto di un testimone che vide le deformate dita del celebre violoncellista Pablo Casals (affetto da artrite reumatoide) riprendere per un momento un poco di vigore, quel tanto che bastava per suonare - l'arte come superamento di se stessi nelle avversità.
"La musica crea una certa vibrazione che indiscutibilmente produce una reazione fisica. Alla fine troveranno la vibrazione giusta per ogni persona e la useranno" previde il pianista George Gershwin.
Non mi voglio qui dilungare sullo sviluppo della musicoterapia: la mia intenzione è gettare uno sguardo su una sua applicazione, ossia sul suo utilizzo coi malati di Alzheimer, notoriamente la forma di demenza più nota, un calvario nel quale la persona, la sua identità e il suo essere tra noi evapora, crudelmente, sottoponendo il paziente e i suoi caregivers a un'ordalia.

Quindi non sto per affermare che la musica compia l'impossibile, ma nel contesto delle cure palliative essa può fare la differenza, senza illusioni, ma con un poco di conforto.
J. Cohen-Mansfield, psicologa del Research Institute of the Hebrew Home di Washington, ha osservato (la pubblicazione è apparsa sulla rivista "Science") come parte dell'aggressività dei pazienti con Alzheimer si acuisca negli stati di solitudine e isolamento sociale in cui spesso gli stessi si trovano; in tal senso, la presenza della musica, divenendo occasione di socializzazione, può essere d'aiuto.
Il cantare, il suonare, o anche solo il verbalizzare, l'applaudire o l'ascolto in contesto di gruppo, possono dare sollievo, senza considerare la mobilitazione fisica che si può in alcuni casi avere.
Ma gli effetti più profondi sono ad altri livelli.
Noi tutti sperimentiamo il potere di una canzone: ed emotivamente e per la sua abilità nel riportarci alla memoria un momento, un ricordo - l'esaltazione mnemonica insita nella musica, il suo smuovere l'emotività e ciò che a essa è connesso.
Una nota esperta, la dottoressa Concetta Tomaino, responsabile dell' Institute for Music and Neurologic Function (organizzazione no profit del Beth Abraham), ha realizzato uno studio in cui 45 pazienti newyorkesi affetti da demenza di medio e grave grado sono stati sottoposti tre volte a settimana per dieci mesi a un'ora di musicoterapia. Ciò ha portato a un miglioramento fino al 50% nei risultati di un test di funzionamento cognitivo somministrato prima e dopo l'iter.
Un dato interessante è la scelta dei brani da far ascoltare, che non è casuale: oltre a tener in considerazione i gusti pre-morbosi del paziente, si è osservata una miglior reazione laddove si mettano a disposizione brani che hanno segnato positivamente l'esistenza dell'individuo, soprattutto quelli che hanno accompagnato la sua adolescenza e prima età adulta, periodo notoriamente denso di tempeste interiori ed eventi.
Naturalmente è richiesta la presenza di musicoterapisti e di un setting adeguato, oltre che di altra ricerca, ma è comunque un dato interessante.
La musica riguarda l'emotività, la cognizione, il corpo, la coordinazione, la memoria e chi siamo e siamo stati - "Come distinguere la danza dal danzatore?" si domandava senza aver risposta W. B. Yeats.


Il dottor Ardash Kumar della School of Medicine dell'Università di Miami ha voluto studiare la chimica del cervello dopo sessioni di musicoterapia: dopo un mese di terapia si notava un incremento della melatonina (importante tra l'altro per la regolazione dei ritmi circadiani) che permaneva per sei settimane, e un aumento dei neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina, che però scemava in fretta.
Non un miracolo appunto, visto che spesso si parla anche di un fantomatico e opinabile "effetto Mozart" che sembra panacea per ogni male.
Purtroppo non è così: ma restituire un poco di quiete e far ritornare indietro anche per pochi passi qualcuno che si ama e si è perso nelle nebbie della demenza, è già qualcosa che merita opportunità e approfondimento.


FONTE:https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-psicologia-dintorni/497-musicoterapia-alzheimer

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