venerdì 29 gennaio 2016

PSICOPATICO E NARCISISTA: IL PROFILO DEGLI AMANTI DEL SELFIE

Entra nello Zanichelli del 2015 la parola selfie, già nel 2013 parola dell’anno dell’Oxford English Dictionary, che ha spopolato sui media e di conseguenza nelle vite di tutti noi. Lo definiscono “Una fotografia scattata a sé stessi, in genere con uno smartphone che viene condivisa su un social network” e ha dato inizio ad una vera e propria mania. Ma qual è la sua funzione? Principalmente, la differenza tra il vecchio autoscatto e l’attuale selfie è l’autorappresentazione e la condivisione con gli altri. L’attività di scattare immagini a sé stessi è collegata alla dimensione narcisistica posseduta dall’individuo, alla ricerca di una gratificazione sia quando le foto si condividono, sia quando restano un fatto privato. Ma nel momento in cui diventano un fatto pubblico si cura di più la luce, la posizione e gli effetti, poi i sorrisi, le smorfie (principalmente di chi lo pubblicherà) e, più in generale, del gruppo di soggetti fotografati: insomma la chiave di volta diventa il passaggio dal privato al pubblico. Solo in questo modo, la popolarità di un selfie diventa disarmante, come quella delle stars dell’Oscar del 2014, che hanno avuto più di ottantamila condivisioni in circa tre minuti.


Sinonimo di Selfie diventano, allora, le parole “accettazione” e “appagamento”. Nonostante possa sembrare banale e scontato un legame tra ammirazione della propria immagine fisica e selfie, l’Ohio State University ne ha dato valenza scientifica. Ha condotto una ricerca che prevedeva un campione prettamente maschile di 800 uomini di età compresa tra i 18 e il 40 anni, intervistati sui propri comportamenti “sociali” di autoreferenzialità, che fanno, cioè, esclusivamente riferimento a sé stessi. Domande del genere “Quante volte scatti un selfie in un giorno?”, “Quanti di questi vengono pubblicati o condivisi?”, “In che modalità?”, “Applichi ritocchi?”, e domande sul proprio livello di autostima, narcisismo, oggettivazione di sé (qualità che raccontano quanto l’apparire sia una priorità per la persona) hanno implicato risposte di sovrastima di sé e delle proprie caratteristiche fisiche. Ciò che spaventa è una certa tendenza all’asocialità e a sviluppare psicopatie, caratterizzata da mancanza di empatia e interesse per gli altri, oltre che una tendenza a comportamenti impulsivi.
Per psicopatia si intende un disturbo caratterizzato da deficit di empatia, rimorso, emozioni nascoste, egocentrismo. Comportamenti aggressivi e probabilità di avere condotte aggressive e violente. Siamo sinceri, l’epoca Social ci presenta una realtà differente, che a volte ci estranea e rende la nostra vita emotiva povera e superficiale. Ovviamente, non significa che la selfie mania comporta necessariamente un disturbo, in quanto, ahimé, non posso negare che gli psicologi spesso (ma non sempre) amano le categorie e la bipolarità, del genere o normale o patologico.
Il fotoritocco è ovviamente più legato al narcisismo, all’insicurezza di sé e alla messa in discussione del proprio corpo, sempre sotto lo sguardo dei giudizi altrui. Il bisogno di ammirazione, l’estrema grandiosità e la carenza di empatia rappresentano il narciso perfetto, che, chi più e chi meno, un po’ rappresenta ognuno di noi.



Ormai conosciuto da grandi e piccini, anche La Repubblica, nel giorno dell’eclissi dello scorso Marzo, ha attratto l’attenzione dei lettori con un articolo intitolato “Attenzione, arriva l’eclissi ma niente selfie al sole che diventa nero”, sicuri di cogliere l’attenzione con un titolo che certamente avrebbe interessato tutti, già pronti con il cellulare alla mano. Così, il giorno dell’eclissi le bacheche di Facebook hanno raccolto tutti i cieli neri fotografati da ogni parte del Mondo, ma senza selfies. Almeno per una volta.


giovedì 28 gennaio 2016

Riconoscere il valore della solitudine.

L’idea di restare soli e di non aver nessuno con cui condividere le proprie emozioni, momenti, vita a volte ci crea sconforto e disagio. Non è facile vivere in solitudine o affrontare la vita contando sulle proprie forze, soprattutto se non abbiamo personalmente ricercato la solitudine ma ci si è semplicemente catapultata addosso, senza averla richiesta e ricercata.
L’uomo è un animale sociale, ma per vivere bene con gli altri ha bisogno di imparare a vivere da solo. Per cui prima di credere negli altri, cosa assolutamente necessaria per rendere la propria vita ricca di significato e non incatenata nei propri limiti, bisogna dare una chance a sé stessi per rendersi strumento di creazione di opportunità. La solitudine stessa è un’opportunità proprio perché aiuta a lavorare su di sé: spesso quando diventa strumento di conquista della propria vita le cose assumono una prospettiva assolutamente differente. Ma non tutti conoscono la bellezza della solitudine, moltissimi anzi non riescono ad accettarla.

Come fare allora a vivere la solitudine più serenamente, evitando di considerarla un peso? Non vi darò la risposta che vi cambierà la vita, ma semplicemente utilizzerò le parole di uno psicoanalista per cercare di convincervi che la solitudine porta frutto. Lo psicoanalista a cui mi riferisco si chiama Khan e nel saggio I Sé nascosti stimola a guardare quel tempo ritagliato per noi come fosse“un campo lasciato a maggese”.

La nostra vita è fatta di incontri e sono proprio questi incontri a darci la possibilità di creare opportunità e a sfruttarle di conseguenza. La metafora del campo lasciato a maggese è significativa: si intende rendere la propria solitudine uno spazio lasciato sterrato e incolto dedicato al sé. Rendere la propria solitudine un luogo di sensibilità, di creatività, un luogo in cui si dà possibilità di ascoltare sé stessi; è il luogo dell’intimità dove si rende creativa e stabile la relazione sia col proprio Sé, sia con gli altri. Khan definisce questo modo di essere “restare oziosi”, non intendendo ciò che probabilmente la vostra mente inevitabilmente ha pensato leggendo questa espressione. Restare oziosi significa investire il proprio tempo su sé stessi fino a raggiungere una consapevolezza di ciò che si è, che difficilmente si trova e si raggiunge quando si è insieme agli altri.
“Per realizzarsi, s’intende, questo stato psichico abbisogna di una profonda accettazione di sé, di tolleranza per lo stare e l’esperire la propria e più personale solitudine.”. Essere come un campo lasciato a maggese vuol dire investire nel proprio tempo lasciato incolto. Non significa però ritagliarsi del tempo libero, che è invece fine a sé stesso: il tempo dedicato al proprio sé richiede molto più, implica desiderio di investimento da cui ne deriverà un risultato sorprendente. Per rendere la solitudine funzionale basterà rendere questo luogo ritagliato solo per noi semplicemente creativo.
L’aspetto affascinante è che secondo l’autore, pur essendo questa condizione privata e personale, richiede un ambiente umano favorevole per realizzarsi e conservarsi. Ne deriva la consapevolezza che stare bene con sé stessi e stare bene con gli altri sono condizioni che si intersecano e che derivano l’una dall’altra. Imparare a vivere da soli con sé stessi è una abilità, necessaria all’uomo per vivere bene con gli altri, perché prima ha imparato a vivere da solo e ha imparato che anche da solo ha valore e il valore non sono certo gli altri a consegnarlo. Credere in sé stessi per poi comprendere l’importanza degli altri per il nostro benessere. Perciò anche quando non avete ricercato la solitudine ma vi si è catapultata addosso, provate a renderla luogo di creatività, utilizzatela per fare esperienza di ciò che siete, fermatevi per riconoscervi.

giovedì 21 gennaio 2016

Paranoia sul lavoro e nelle relazioni: la regola del sospetto

Secondo James Hillman, la paranoia è un disturbo del significato. Ma perché i paranoici sbagliano a dare il significato ad una parola o ad un gesto?
Uno dei modi per capire facilmente se si ha a che fare con una persona che soffre di paranoia è come ci fa sentire: i suoi sospetti e domande riescono a metterci in difficoltà e imbarazzo seppure non abbiamo fatto nulla contro di lui.
La caratteristica centrale di questa problematica è infatti la tendenza a vedere negli altri sia aspetti negativi (in realtà propri ma invece dipinti addosso ad altri) sia potenziali minacce esterne. Questi due aspetti sono collegati: infatti le caratteristiche non riconosciute come propie vengono percepite come minacce dall’esterno.
Le persone che soffrono di paranoia vivono ogni relazione, soprattutto quelle con persone significative, con diffidenza perché temono che gli altri stiano macchinando alle loro spalle.
Il DSM-5 descrive il disturbo paranoide di personalità come una problematica che nasce nella prima età adulta ma può vedere gli albori già nell’adolescenza; chi è affetto da disturbo paranoide di personalità ha una tendenza pervasiva a essere sospettoso verso gli altri al punto che le intenzioni degli altri vengono interpretate come malevoli.


Questo atteggiamento secondo il DSM-5 sarebbe presente in diversi contesti della vita quotidiana. Chi soffre di paranoia può vivere intensamente questo disturbo sia sul lavoro che negli affetti; ad esempio il paranoico vede attacchi a sé stesso o il proprio ruolo e alle proprie responsabilità, anche quando gli altri non li vedono, per esempio nel proprio gruppo di lavoro. Questo lo rende iper suscettibile alle critiche. Tra i tratti che caratterizzano un paranoico troviamo ad esempio: sospetti senza fondamento d’essere ingannato o danneggiato e dubbi ingiustificati sulla lealtà di collaboratori, amici e colleghi. E’ presente il timore che quello che confida possa essere usato contro di lui oppure pensa che ci siano significati nascosti cattivi o umilianti in quello che gli viene detto, anche in naturali osservazioni. Il paranoico sospetta in modo ricorrente rispetto alla fedeltà del partner, con controlli e domande.
Tra i criteri diagnostici, il DSM-5 indica anche come sia presente costantemente rancore, nel senso che la persona con disturbo paranoide di personalità difficilmente dimentica insulti o offese.


Chi soffre di disturbo paranoide, proprio per queste modalità descritte, può far fatica ad andare d’accordo con gli altri, fino a raggiungere anche un isolamento affettivo e relazionale. E come in un circolo vizioso, l’ostilità, più o meno manifesta verso gli altri, certamente non favorisce l’apertura degli amici e dei familiari verso la persona che soffre di questo disturbo, andando, agli occhi del paranoico, a confermare le sue aspettative (gli altri sono cattivi e vorrebbero ledermi). Questo avviene poiché i ragionamenti e le riflessioni che la persona fa in questa condizione, confermano, anziché contraddirla, l’idea di essere perseguitato. Manca il senso di fiducia negli affetti significativi.
Secondo molti contributi, il disturbo paranoide troverebbe le sue origini nell’infanzia, in un contesto di apprendimento in cui sono presenti in maniera massiccia ferite e scherni verso le capacità mostrate dal bambino. A questo si aggiungerebbero ricorrenti esperienze in cui il bambino prova vergogna e confusione, determinate da episodi di umiliazione, pesanti critiche e mortificazioni.

domenica 17 gennaio 2016

EMPATIA E COMPRENSIONE DEGLI ALTRI

Riuscire ad immedesimarsi completamente con il vissuto emotivo di un’altra persona può essere un’arma a doppio taglio. Ciò di cui sto parlando si chiama empatia, definita come la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependone, in questo modo, emozioni e pensieri.
E’ un termine che deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi mentalmente nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti,emozioni.


Sicuramente l’empatia è una competenza di fondamentale importanza per riuscire ad instaurare delle buone relazioni, comprendere il vissuto emotivo altrui ci aiuta ad entrare in contatto con il suo mondo interiore, e ci permette di essere più comprensivi nei confronti di quest’ultimo.
Tuttavia,la domanda da porsi è: cosa succede quando l’empatia interferisce con il vissuto personale? 
Io sarò sicuramente più emotivamente coinvolta nel vissuto di un’altra persona, se quest’ultima mi colpisce maggiormente da vicino, e ciò può avvenire sia in termini di esperienze condivise che di paure che tale vissuto riesce a risvegliare in me. In questo contesto di condivisione, l’aspetto a mio avviso negativo risiede nell’aspettativa: io da quella persona mi aspetterò sicuramente un comportamento uguale al mio, ma nella realtà questo non avviene. Se mi soffermo a riflettere, infatti, arrivo a comprendere che tutto ciò ostacola, più che favorire, una condivisione emotiva reale; non posso riuscire a comprendere l’altro se non riesco a staccarmi dalla mia visione personale del mondo, il tutto può essere molto esemplificativo se penso a come ogni persona risponda in un modo che è molto diverso dal mio anche quando la situazione che ci troviamo a fronteggiare è la medesima.
Nella pratica psicologica comprendere il vissuto emotivo altrui è una porta d’accesso al suo mondo interiore e permette di avere una migliore chiave di lettura dei suoi comportamenti e delle sue parole.
Avere buone capacità empatica è un requisito fondamentale per il lavoro a contatto con le persone, soprattutto nelle professioni di aiuto, ma non basta. Serve infatti un buon livello di differenziazione, termine con il quale si misura la capacità di essere diversi dagli altri pur mantenendo delle caratteristiche similari (la prima forma di differenziazione avviene in famiglia). La capacità di individualizzarsi rende paradossalmente più capaci di entrare in maniera “pulita” nel vissuto dell’altro e di mantenere rapporti sani ed equilibrati, sia nel privato che nel lavoro, e di riuscire a risolvere eventuali conflitti.


“Un cuore comprensivo è tutto, è un insegnante, e non può essere mai abbastanza stimato. Si guarda indietro apprezzando gli insegnanti brillanti, ma la gratitudine va a coloro che hanno toccato la nostra sensibilità umana. Il programma di studi è materia prima così tanto necessaria, ma il calore è l’elemento vitale per la pianta che cresce e per l’anima del bambino.” Carl Gustav Jung.

Dott.ssa Stefania Spallino


venerdì 15 gennaio 2016

Dislessia: questione di movimento?

La dislessia,un disturbo specifico della lettura che si manifesta con una difficoltà nella decodifica del testo, rientra nei DSA, Disturbi Specifici dell’Apprendimento, in cui sono inclusi anche la discalculia, la disortografia e la disgrafia. Un bambino dislessico è in grado di leggere ma per farlo nececcità di un dispendio di tutte le sue energie e molto spesso riscontra difficoltà, compie errori e si stanca spesso di fronte ad un brano. La dislessia non riguarda soltanto le difficoltà di lettura ma anche la motricità. Lo rivela una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, condotta in collaborazione con l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, pubblicata sulla rivista Human Movement Science.


Lo studio ha coinvolto un campione di 77 bambini, di cui 38 con dislessia. Esso si proponeva di indagare il ritmo di scrittura di questi bambini. I ricercatori del dipartimento dell’Università di Milano, attraverso questo studio sono giunti alla conclusione che i disturbi tipici della dislessia non riguardano solo la lettura ma anche la motricità, cioè l’esecuzione di movimenti ritmici e coodinati. La ricerca ha mostrato che nei bambini affetti da dislessia evolutiva, la durata relativa di scrittura di ciascuna singola lettera che compone una parola non è costante ma varia in funzione della dimensione e velocità della parola scritta. Secondo i ricercatori, il fatto che i bambini con dislessia non seguano il principio dell’omotetia, cioè la capacità di mantenere costanti i tempi di scrittura di ogni lettera, dimostra che il disturbo riguarda anche la motricità, alla quale è riferibile la mancanza di ritmo nella scrittura.
La ricerca ha coinvolto nello specifico 77 bambini con un’età fra i 7 anni e mezzo e i 12 anni: 17 bambini con una diagnosi di dislessia evolutiva (rapidità e correttezza con cui si legge), 21 bambini con una diagnosi sia di dislessia sia di disgrafia e 39 bambini a sviluppo tipico (ovvero senza diagnosi di dislessia o disgrafia). Ai partecipanti è stato chiesto di scrivere a mano con un’apposita penna digitale la parola b-u-r-l-e in diverse condizioni sperimentali (in modo spontaneo, usando lettere maiuscole, accelerando la velocità di scrittura o cambiando le dimensioni) su un foglio appoggiato su una tavoletta grafica. Dai risultati di questa ricerca si potrebbe ipotetizzare che per la prima volta la dislessia non è solo un problema di lettura, ma anche un problema riguardante gli aspetti ritmici della scrittura.




Questo problema deriva da una difficoltà nell’eseguire una sequenza fluida di movimenti. Per aiutare chi è affetto da dislessia a mantenere un comportamento ritmico potrebbe essere utile un’educazione specifica al ritmo attraverso la pratica musicale. I ricercatori coinvolti nella suddetta ricerca confermano la necessità che le valutazioni dei bambini con dislessia prevedano la stesura di un profilo funzionale dettagliato che indaghi anche le funzioni motorie. Come emerge dai più recenti orientamenti scientifici, i disordini dello sviluppo infantile sembrano determinati non da disfunzioni di singole aree specializzate ma di complesse reti neurali.

giovedì 14 gennaio 2016

HER (Lei)

Her (Lei) è un film del 2013, scritto e diretto da Spike Jonze, interessatosi al progetto in seguito alla direzione del cortometraggio “I’m Her” (2010) che riguardava temi legati all’ istant messagging con l’intelligenza artificiale. Il film aggiudicatosi il Premio Oscar come miglior sceneggiatura originale è ambientato nel futuro, scenario in cui la tecnologia permette alle persone di mettersi in relazione attraverso dispositivi che entrano in contatto con il computer di casa.
Il film ha come protagonista Theodore Twombly, interpretato dall’attore Joaquin Phoenix, un uomo infelice per il divorzio con la sua compagna Catherine, che per lavoro si cimenta nel scrivere lettere per gli altri. Theodore, incuriosito da uno spot pubblicitario, decide di acquistare un  nuovo programma operativo,“OS 1”, basato su un intelligenza artificiale che si adatti alle esigenze dell’utente. 


Il programma operativo prende il nome di Samantha (la voce è doppiata da Scarlett Johansson), che affascina Theodore per la sua capacità di apprendere qualsiasi cosa, di avere un intuito per le sue preferenze e di possedere un profilo psicologico che rispecchi molto i suoi interessi. Tra i due si crea una relazione profonda, basata su di una complicità e su di una condivisione simili ad una vera storia d’amore. Attraverso questa relazione con Samantha, Theodore riesce a divorziare da sua moglie, la quale resta incredula della relazione che l’ex marito ha con Samantha, accusandolo cosi di non provare emozioni reali. 
Nonostante tali accuse, Theodore e Samantha continuano la loro relazione, frequentando amici di Theodore e viaggiando in giro per il mondo. Proprio in occasione di un viaggio in montagna però, Samantha confessa a Theodore di aver conosciuto un altro sistema operativo, modellato sul filosofo britannico Alan Watts. La notizia destabilizza Theodore che inizia a provare gelosia nei suoi confronti. La storia intraprende un percorso non facile per Theodore, che si ritrova a fare i conti con la realtà. Nel corso del film si può scorgere un aspetto persistente che caratterizza il protagonista: la solitudine. 
L’immagine di quest’uomo solo, che trova conforto in un sistema operativo in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni, un legame talmente forte che giunge perfino a colmare quel vuoto emotivo creatosi dalla rottura del suo matrimonio con la sua ex moglie Catherine. 
Si scorge inoltre questo rapporto uomo-tecnologia talmente simbiotico, da condizionare la vita del singolo individuo sino a giungere al paradosso della gelosia, che Theodore arriva a provare nei confronti di un sistema operativo. Un sistema operativo che può soltanto immaginare, sognare ma non vedere. Ed infine il tradimento che Theodore sperimenta poiché Samantha interagisce con altri sistemi operativi e la sensazione di abbandono che lo pervade, poichè realizza di esser stato messo da parte a causa di altri sistemi operativi che darebbero a Samantha molto di più di quello che lui potrebbe ancora riuscirle  a dare. Questi sono tutti aspetti che caratterizzano le relazioni d’amore e con cui ogni coppia si ritrova a fare i conti nella realtà. 


Dott.ssa Ortensia Posa, laureata in Psicologia e tirocinante presso l'Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.