mercoledì 31 agosto 2016

L’altra faccia del perfezionismo: perché non bisogna esagerare




In una società come quella occidentale, nella quale per inserirsi lavorativamente ed essere riconosciuti socialmente bisogna formarsi per l’intera esistenza ed essere super-specializzati, quali sono le risorse personali chiamate in causa? Quali le conseguenze a livello psichico e comportamentale?
La nostra è senza dubbio una società in cui, per sperare di riuscire, bisogna perfezionare le proprie conoscenze e competenze; il mondo del lavoro e gli studi superiori contribuiscono a rafforzare le tendenze perfezionistiche e istigano la persona ad approfondire specifici settori oltre che a “collezionare” titoli con il massimo dei voti e questo perché “sapere tutto” o, in ogni caso, più degli altri è diventato indispensabile per sfondare nel proprio campo di interesse.
Ma cosa si intende per perfezionismo? In che modo esso influisce nella nostra vita?
Il perfezionismo è un tratto molto importante della nostra personalità. Essere perfezionisti, infatti, equivale ad essere accurati in ciò che facciamo, ad essere efficaci e a sfidare se stessi ponendosi specifici obiettivi da raggiungere. Tale tratto, quindi, può migliorare il nostro operato e renderci soddisfatti di noi stessi, contribuendo ad aumentare la nostra autostima nel momento in cui i risultati raggiunti coincidono con gli obiettivi che ci eravamo posti.
“La perfezione ha un grave difetto; ha la tendenza ad essere noiosa” (William Somerset Maugham)
Tuttavia il perfezionismo può assumere proporzioni esagerate e diventare una vera e propria patologia nel momento in cui si trasforma in ossessione. Le conseguenze di tale trasformazione possono essere devastanti per la persona interessata, così come per coloro che le stanno accanto.
Ma esistono diverse tipologie di perfezionismo? La risposta è sì
Il perfezionismo, infatti, può essere orientato verso se stessi, verso gli altri o verso l’ambiente sociale; ognuna di queste tipologie comporta specifiche conseguenze positive e/o negative.
Il perfezionismo rivolto verso se stessi non implica necessariamente lo svilupparsi di una patologia, ma può provocare un forte stress nell’individuo che, nei casi limite, potrà porsi obiettivi irraggiungibili che lo condurranno ad una svalutazione di Sé.
Il perfezionismo verso l’ambiente sociale consiste nella tendenza a raggiungere la perfezione per soddisfare aspettative del mondo esterno e potrà avere come conseguenza l’incapacità di leggere i propri desideri.
Infine, la terza tipologia e, quindi, quella del perfezionismo rivolto verso gli altri, potrà avere degli effetti devastanti, in particolare nelle relazioni, poiché la persona tenderà a svalutare e criticare continuamente il proprio partner.
Il perfezionista patologico, quindi, avrà delle aspettative irrealistiche associate ad obiettivi irraggiungibili che comportano la sfiducia in se stessi; al contempo sarà particolarmente sensibile alle critiche ed avrà il timore di fallire.
Le origini di tali tratti patologici ci riconducono al vissuto della persona, ovvero alle dinamiche sociali e familiari.
La famiglia e la società possono, infatti, aver effettuato sin dall’infanzia specifiche pressioni sulla persona che potrà essersi adattata portando sempre più l’attenzione alle aspettative esterne piuttosto che ai propri desideri. Tale dinamica, cruciale per lo sviluppo di disturbi quali quello del perfezionismo patologico, facilita lo svilupparsi dell’idea che avere il totale controllo del mondo circostante e, quindi, dei propri comportamenti, possa evitare imprevisti e situazioni fuori programma che potrebbero far sentire la persona vulnerabile e, quindi, a rischio.
Ma allora, quali sono le condizioni che ci fanno comprendere che il perfezionismo sia diventato una vera e propria patologia?
Il film “Qualcosa è cambiato”, interpretato sapientemente da Jack Nicholson, può dare un’idea di come la perfezione possa trasformarsi in ossessione e compulsione e, in tal modo, interferire notevolmente con tutte le attività quotidiane della persona.
È possibile dunque comprendere quando il semplice perfezionismo sta diventando una patologia nel momento in cui esso interferisce con le più semplici attività quotidiane e coinvolge coloro i quali sono vicini alla persona interessata.
In virtù di ciò che è stato detto, le patologie maggiormente associate al perfezionismo patologico sono principalmente tre: il disturbo ossessivo-compulsivo; l’ansia sociale e la depressione
Il primo ha alla base l’esigenza di controllo degli oggetti e del propri gesti; l’ansia sociale, in questi casi generata da una eccessiva paura del giudizio altrui, limita notevolmente i contatti con gli altri e, infine, la depressione può essere causata dalla svalutazione di Sé e dalla perdita di autostima conseguentemente all’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi.
Se da un lato, quindi, essere perfezionisti può aiutarci a migliorare la nostra vita facendoci raggiungere obiettivi che ci faranno essere fieri di noi, dall’altro è importante non esagerare e, ogni tanto, prendersi il lusso di essere un po’ imperfetti!

mercoledì 3 agosto 2016

Perché si fa fatica a chiedere?




Chiedere è sempre stato difficile per tutti, un pò per un moto di orgoglio personale, un pò per quel senso di indipendenza che ci piacerebbe poter portare avanti in ogni caso.
Chiedere significa umiliarsi, risultare insistenti con le persone, dimostrarsi assertivi (ossia fornire la propria opinione senza trascurare l’altro, ma non farsi sottomettere da nessuno), chiedere è legittimo e rispondere è cortesia.
Sembrerebbe che chiedere sia una sorta di sottomissione e di obbligazione verso l’altro, come se si scomodasse e fosssimo in dovere di ricambiare la richiesta prima o poi.
Il film di Pier Paolo Pasolini “Che cosa sono le nuvole” del 1967 ha al suo interno un dialogo tra burattini, Otello e Jago, interpretati da Ninetto Davoli e da Totò, in cui si affronta il tema della verità.
Essa è soggettiva, dipende dal momento e dalla persona che la nomina, non può essere detenuta da nessuno, varia a seconda della relazione che si instaura tra i soggetti, è legata al fatto che ogni essere nasce e muore da solo.
Bisogna comprendere, in altre parole, che il fatto di chiedere è legato al dialogo, che si può spingere fino ad un certo punto, poichè la solitudine è diagnosi e terapia allo stesso tempo di sè, il corpo delimita lo spazio che la mente vorrebbe prevaricare ma non può farlo perchè anzitutto c’è il singolo.
Chiedere è anzitutto un dovere verso sè stessi,  più che dalle risposte il valore di una persona si misura dalle domande che si riescono a porre.
Sono diversi i motivi per cui si fa fatica a chiedere: orgoglio, mancanza di volontà di ammettere di avere un problema, vergogna, timore del rifiuto, paura del giudizio degli altri; ecco, alla base di tutto ci dev’essere la liberazione dalla dipendenza dal giudizio altrui.
Chiedere è sempre lecito, a prescindere dalla risposta che si ottiene.

martedì 2 agosto 2016

Come evitare lo stress da vacanza




L’idea che le vacanze possano diventare motivo di stress appare assurda, eppure in prossimità delle ferie e delle partenze estive possono verificarsi cali del tono dell’umore, difficoltà nel sonno, irritabilità, mal di testa e altri disturbi fisici di lieve o moderata entità riconducibili a fattori psicosomatici.
L’insieme di questi sintomi può essere ricondotta a una sindrome da stress e perturbare, a volte in modo significativo, la ricerca del relax e dello svago tanto attesi dopo mesi di lavoro.
Se da un punto di vista logico la cosa non ha alcun senso, da un punto di vista psico-logico può essere spiegata col fatto che ogni evento che stimola una risposta emotiva intensa o implica un cambiamento marcato delle abitudini, sia esso positivo o negativo, comporta una certa quantità di stress, variabile a seconda del contesto e della persona.
Lo stress è da intendersi come un fisiologico adattamento dell’organismo a un cambiamento del sistema in cui abitualmente funziona, perciò non si tratta necessariamente di un indicatore preoccupante ma di una risorsa che può predisporre la persona a compiere le scelte più appropriate per reagire a una situazione nuova.
Perciò niente paura e niente allarmismi estivi: un po’ di ansietà e di affanno durante i primi giorni di ferie o di viaggio può essere interpretata come una positiva fase di predisposizione psicologica, per poi immergersi a fondo nella meritata vacanza.
Nei casi in cui lo stress persiste, ovvero quando i sintomi non si attenuano ma aumentano o si stabilizzano ad un livello avvertito con disagio e preoccupazione, invece, è probabile che la condizione di riposo data dalle ferie anziché distendere e confortare la persona, favorisca l’emersione di problematiche che l’impegno lavorativo consentiva di “tenere sullo sfondo”.
In questo senso, non è la vacanza in sé a scatenare lo stress e i suoi sintomi, ma motivazioni soggettive di cui la persona può non avere, o non voler avere, piena consapevolezza. Per esempio, chi va in ferie in una situazione di conflittualità o precarietà lavorativa può reagire con stress al fatto di non poter più controllare quanto accade sul posto di lavoro in sua assenza e, così, sperimentare la pesante sensazione di “non riuscire a staccare” e di non godere pienamente di ciò che fa in vacanza.
O ancora, se la persona vive con insoddisfazione un rapporto sentimentale, la pausa estiva condivisa col partner può trasformarsi in una trappola per la coppia; così l’apatia, il disamore o l’insofferenza si trasformano in stress da vacanza, una motivazione consciamente più accettabile, anche se decisamente costosa.
Altri elementi che possono favorire lo stress da vacanza sono relativi all’aspettativa eccessiva di divertimento o benessere riposta nel periodo di ferie, ovvero all’idealizzazione di un viaggio o di un’esperienza programmata come fossero magici rimedi alla restante parte dell’anno, magari passata a ricorrere ritmi trafelati o a rimediare a problemi di varia natura.
Infine, alcune persone spendono nella vacanza ogni energia alla ricerca vorace e irrealistica di nuove emozioni, per poi rientrare sfibrate e frastornate alla quotidianità senza aver stabilito qualche giorno di “decompressione” necessario per evitare che lo stress da vacanza si manifesti nel bel mezzo del rientro a lavoro.
Ciò che può aiutare a combattere lo stress, e non solo quello da vacanza, è acquisire la capacità di fermarsi, di “stare” per davvero al centro dei fatti e delle relazioni della propria vita invece che affrettarsi a correre in spiaggia o a volare per chissà quale meta.
In parte, questo significa imparare ad “annoiarsi”, a dondolare lentamente e placidamente per un po’ nel proprio tempo e nel proprio corpo, evitando la perenne tentazione di fuggire altrove.