mercoledì 2 settembre 2015

DAL NUTRIRSI ALL’ABBUFFARSI : I SIGNIFICATI PSICOLOGICI DEL CIBO


Oggi il fenomeno dell’obesità costituisce un fenomeno di incidenza sempre maggiore non solo fra gli adulti ma anche nei bambini; è aumentato perciò l’interesse e la sensibilità verso questo problema sia da un punto di vista strettamente medico sia da un punto di vista sociale, tanto che da più parti viene sentita la necessità di diffondere ed incrementare informazioni sulle corrette abitudini alimentari, e di promuovere la cosiddetta cultura del “mangiar sano”.
Mangiare e bere costituiscono la risposta a pulsioni fisiologiche attraverso le quali l’organismo richiede energia e nutrimento. Mangiare e bere però rappresentano anche un' esperienza psicologica, che corrisponde all’appagamento di un desiderio. Dunque il cibo assume valenze che vanno ben oltre il solo nutrimento. Esiste infatti da sempre anche una concezione non strettamente alimentare del cibo, legata a fattori sociali, culturali e simbolici che derivano a loro volta dagli usi e costumi, dalla storia, e dai valori che caratterizzano una determinata società. Se è vero che la nutrizione si pone come necessità fisiologica, è anche vero che le risposte a quest'ultima sono condizionate dal contesto socio-culturale e possono essere considerate risposte sociali e culturali. Questo spiega perché in molti casi l’obesità non dipenda da fattori organici ma si presenti collegata ad una alterazione del comportamento alimentare di origine psicologica o psico-sociale.


Il supporto psicologico diventa perciò un elemento molto importante nella gestione e nel trattamento del paziente obeso, dal momento che i fattori psichici possono incidere sia come cause che come effetti e conseguenze della patologia.
Rispetto alle cause, il cibo può diventare una sostanza da cui dipendere psicologicamente quando è vissuto o percepito come valvola di sfogo, come rifugio o come sostanza analgesica contro le sofferenze vissute durante la giornata, o contro situazioni di disagio o di conflitto. Pertanto stati d’animo come ansia, depressione, stress, inibizione emotiva possono influire sul rapporto con il cibo e causare un aumento di peso.

Spesso il cibo non è gustato, ma ingurgitato per riempire in fretta un opprimente senso di vuoto interiore, confuso con la sensazione di fame vera e propria. Mangiare, o meglio abbuffarsi, allora, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive. Il cibo può compensare un’affettività carente o non gratificante, può placare un’aggressività non altrimenti esternata, può attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, può consolare da delusioni, fallimenti o eventi traumatici (come lutti, separazioni…). Spesso la rabbia, la tensione, la noia ed altre emozioni sono confuse con la fame.

Le origini di quanto descritto possono essere rintracciate nel tipo di relazione instaurato tra il bambino e le prime figure di attaccamento, relazione che viene mediata anche dalle modalità con cui viene curato l’aspetto alimentare. Un tratto comune delle madri di giovani con problemi di obesità è proprio quello di aver imposto al figlio il proprio concetto rispetto a quelli che sarebbero stati i suoi bisogni. Se la madre nutre il bambino sulla base di propri convincimenti quali, ad esempio, quello secondo cui un bambino grasso è un bambino bello e sano, o quello secondo cui il cibo deve essere fornito secondo precisi schemi in termini di quantità, qualità e orari, questa madre non tiene conto delle effettive e fisiologiche esigenze del piccolo, perciò con il tempo il bambino, avendo difficoltà a percepire lo stato interno di bisogno e di desiderio, comincerà a nutrirsi dipendendo da segnali e fattori esterni. Può accadere inoltre che la madre sia distante affettivamente dal bambino pur essendo molto presente rispetto al suo compito o ruolo. Il bambino può allora percepire il cibo come surrogato dell’affetto e, diventato adulto, potrà assumerlo con questa stessa valenza: le emozioni vengono canalizzate solo attraverso il cibo e l’elaborazione psichica del disagio è sostituita dalla gratificazione che proviene dalle sensazioni corporee. Anche la presenza di un forte legame di tipo simbiotico con la madre durante l’infanzia può essere un fattore di predisposizione all’obesità. Il vincolo di dipendenza del bambino alla madre, inizialmente funzionale alla sopravvivenza del piccolo, se non viene sostituito da progressivi processi di separazione ed individuazione, che segnano la crescita psicologica dell’individuo in termini di autonomia, non lascia al bambino lo spazio sufficiente per diventare psicologicamente maturo e un individuo indipendente. Spesso il bambino è considerato un bene prezioso a cui si debbono le cure migliori ma nello stesso tempo non gli viene riconosciuta la propria individualità. Non solo, ma in questo modo il bambino non è in grado di affrontare e tollerare le frustrazioni; pertanto in futuro potrà avere delle difficoltà a procrastinare il soddisfacimento di un bisogno, che invece è una capacità tipica della persona adulta e psicologicamente matura.

Evitando generalizzazioni, comunque, occorre sottolineare che le dinamiche che entrano in gioco nel predisporre all’obesità sono altamente soggettive, e anche il riferimento alle prime esperienze infantili acquista un certo spessore e significato solo se ci si riferisce a modelli di relazione fra il bambino e le sue figure di attaccamento che risultino in modo reiterato poco funzionali, incoerenti o incostanti.

Per quanto concerne le conseguenze psicologiche dell’obesità, spesso si assiste ad una dispercezione relativa al senso di fame e di sazietà, e soprattutto rispetto alle proprie dimensioni corporee, che nella maggior parte dei casi vengono sottostimate rispetto alla realtà.

Sensi di colpa, sintomi depressivi e bassa autostima sono i principali disagi psicologici riscontrabili nel soggetto obeso.

I sintomi depressivi possono derivare dall’incapacità di osservare un rigido regime alimentare unita allo sperimentare numerosi fallimenti. Il vissuto depressivo può risultare così significativo da interferire con la qualità della vita dell’individuo nel suo insieme, ed il probabile utilizzo del cibo come “antidepressivo”, tipico di questi pazienti, non fa che peggiorare pesantemente la situazione.

La bassa autostima è riscontrabile nella misura in cui questi individui tendono a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento di una migliore forma fisica irrealistiche aspettative di affermazione personale e consenso sociale. Durante l’evoluzione della malattia, inoltre, l’obeso può perdere progressivamente la propria autostima a causa dei possibili fallimenti nei tentativi di perdita di peso, e ciò lo porta a stigmatizzare eventuali trasgressioni favorendo l’insorgere e il consolidamento dei sensi di colpa. Si innesca così un circolo vizioso tale per cui il soggetto alterna momenti di restrizione alimentare con altri di perdita di controllo, con lo sviluppo di pensieri e comportamenti che perpetuano l’obesità.

Oltre al tentativo di risolvere problemi medici causati dal soprappeso, ciò che motiva il paziente a decidere per un trattamento dell’obesità è un disagio generalizzato che l’obesità gli comporta: molti pazienti affermano di sentirsi "non normali", "diversi" o addirittura "discriminati socialmente” a causa del loro peso, che crea notevoli ostacoli sia psicologici che fisici (spesso non riescono, per esempio, a guidare, a salire una rampa di scale o a vestirsi come vorrebbero); percepiscono il loro corpo come “estraneo”, “debordante”, “senza confini” e rifiutano la loro immagine corporea con conseguenti difficoltà relazionali e di accettazione di sé.

Nella cura dell’obesità, l'obiettivo primario non è dunque la perdita di peso ma acquisire uno stile di vita e abitudini alimentari rinnovate e sane. Si presentano allora delle possibilità di approccio multidisciplinare segnate non solo dall’aspetto medico/dietistico ma anche dall’attenzione all’aspetto psico-educativo e ai processi comunicativi e di ascolto. All’inizio della terapia ad esempio sono molto utili i gruppi di sensibilizzazione, che permettono al paziente il raggiungimento di una progressiva consapevolezza del proprio disagio psicologico e danno motivazione a quei pazienti che, provenendo da numerosi tentativi falliti di cura, si definiscono come privi di possibilità di cambiamento. In questi gruppi, attraverso il confronto con altri che condividono sintomatologia e vissuti, in un clima di accettazione e di scambio, è più facile per il paziente verbalizzare le proprie esperienze dolorose, i vissuti di angoscia, colpa e vergogna. Prendendo coscienza di quanto il sintomo possa anche limitare la propria vita, il paziente riscopre i propri bisogni e desideri che possono così diventare una spinta al cambiamento.

A questo gruppo, nel percorso terapeutico, può seguire una terapia psicologica individuale, laddove nasca nel paziente l’esigenza di affrontare ed elaborare proprie questioni che entrano in gioco nella condotta alimentare ma che vanno anche al di là di essa, essendo parte integrante della propria struttura di personalità.

In conclusione, il processo terapeutico, tenendo conto di tutti questi fattori, non dovrebbe allora avere solo lo scopo di restituire l’integrità organica all’individuo così come era prima della patologia, ma dovrebbe tendere verso un’evoluzione più completa della persona, in direzione di un costante processo di cambiamento e di acquisizione di una nuova consapevolezza di sé e dei propri meccanismi inconsci di relazione con il cibo e più in generale con l'Altro del legame sociale.

Dott.ssa Leila Zannier

·http://www.associazioneamigdala.it/approfondimenti/dal-nutrirsi-all2019abbuffarsi-i-significati-psicologici-del-cibo

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