Diverse sono le teorie che hanno cercato di spiegare
l’apprendimento del bambino nei primissimi anni di vita e in particolar modo lo
sviluppo del linguaggio.
Piaget, nella sua Teoria degli Stadi
Cognitivi, sostiene che gli sviluppi cognitivo e linguistico passano attraverso
una serie di stadi universali e invarianti e sono indipendenti dall’interazione
sociale con l’adulto di riferimento.
Bruner ipotizza una base innata per il linguaggio dove adulti e contesto
sociale agiscono da sistemi di supporto cosi da favorire l’ingresso del bambino
nella cultura di appartenenza e nel mondo del linguaggio.
Vygotsky sostiene, a differenza di Piaget, che lo sviluppo linguistico-cognitivo
del bambino sia correlato alla quantità e alla qualità delle interazioni
sociali con l’adulto. Concetto fondamentale nella sua Teoria Socioculturale è
quello di Zona di Sviluppo Prossimale (zdsp) intesa come la distanza
tra il livello attuale di sviluppo, cosi come determinato dal problem-solving
autonomo, e il livello più alto di sviluppo potenziale, cosi come è determinato
attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione
con i propri pari più capaci (vedi video consigliato alla fine del testo per un
esempio pratico di zdsp).
Una dimostrazione di zdsp è l’episodio di rievocazione dove
l’adulto aiuta il bambino a ricordare esperienze precedentemente vissute
fornendo suggerimenti e accenni. L’apprendimento allinterno della zdsp è
possibile in parte grazie all'esistenza dell' intersoggettività ovvero un modo
comune di vedere le cose che si basa sull'esistenza di un punto su cui
concentrare l’attenzione e una meta che il bambino e la persona più competente
condividono tra loro. Le persone esperte quindi , gli adulti o coetanei più
capaci, sostengono temporaneamente le abilità emergenti del bambino per poi
lasciare che faccia da sé.
Ritorniamo al linguaggio e alle sue varie fasi di sviluppo.
Il bambino per imparare ad utilizzare il linguaggio deve compiere varie
operazioni preliminari tra cui: segmentare i suoni linguistici che ascolta,
ampliare il vocabolario, padroneggiare le regole morfo-sintattiche della
propria lingua ecc. Per poter eseguire tutto ciò ha ovviamente bisogno di assistenza,
di un aiuto che solo un adulto o una persona più capace può dargli. Quindi
senza una zona di sviluppo prossimale, ovvero uno spazio di interazione
bambino-adulto, lo sviluppo linguistico, cosi come quello
cognitivo-comportamentale non potrebbero avere luogo.
Ma come avviene lo sviluppo
comunicativo-comportamentale nei bambini con sviluppo atipico?
Prendiamo ad esempio i bambini affetti da sindrome di
Down. Questi bambini hanno difficoltà nella produzione vocale che
compensano con un maggior ricorso all'uso dei gesti. Inizialmente il ricorso
alla produzione vocale e ai gesti è equilibrato e simile a quello dei bambini
con sviluppo tipico; con l’andare avanti dell’età però la produzione vocale
diviene scarsa e meno frequente e si associa a un uso più massiccio di gesti.
L’adulto in questo caso punterà sui comportamenti manifesti nei momenti di
attenzione condivisa, quindi nei momenti in cui può agire influenzando
positivamente il bambino nel raggiungimento di uno scopo (nella zona di
sviluppo prossimale appunto).
I bambini con autismo non
riescono a “sfruttare” i momenti di attenzione condivisa con l’adulto non
alternando lo sguardo tra il partner e l’oggetto/evento in questione. Questi
bambini inoltre non guardano il volto dell’adulto per capire come comportarsi
in una situazione ambigua e in loro è carente la capacità di usare l’intenzione
dichiarativa ovvero non riescono a usare un gesto comunicativo, come può essere
il semplice gesto di indicare, per attirare l’attenzione dell’adulto verso un
oggetto o un evento esterno alla diade.
Sono state diverse le ricerche che hanno indagato su come i
genitori di bambini con sviluppo atipico dialogassero con questi ultimi.
L’obiettivo comune di queste ricerche era rispondere al seguente quesito: l’esperienza
linguistica di cui usufruiscono i bambini con sviluppo atipico è uguale a
quella che si rileva per i bambini con sviluppo tipico?
I genitori dei
bambini che presentano disabilità di vario tipo tendono ad essere più direttivi
e meno responsivi dei genitori dei bambini con sviluppo tipico. Il genitore
vede l’interazione con il proprio bambino come una << seduta didattica
>> quindi fa largo uso di ordini e istruzioni. Le madri dei bambini con
ritardo mentale utilizzano inoltre un linguaggio più semplice a livello
sintattico.
Uno studio di Longobardi e Caselli degli anni 90,
ha confrontato lo stile comunicativo delle madri di bambini con sindrome di
Down con quello delle madri con bambini con sviluppo normale della stessa età
linguistica. Le madri di bambini con sindrome di Down indirizzano un numero
inferiore di iniziative comunicative ai propri bambini e di conseguenza
utilizzano meno frequentemente tutte le funzioni comunicative (tutoria,
didattica, etc...). Queste madri non hanno però mostrato una preferenza per uno
stile comunicativo direttivo.
Uno studio di Nelson e collaboratori ha
evidenziato come le madri di bambini con DSL (Disturbo Specifico del
Linguaggio) usano meno le espressioni semanticamente collegate agli enunciati
del bambino (esempio: il bambino dice “Luca macchina” e la madre risponde “Luca
ha la macchina”).
Cross et al. hanno invece confrontato il livello di capacità di
comprensione verbale dei bambini sordi e dei bambini udenti. Il campione era
composto da un gruppo di bambini sordi di cinque anni di età (1) , un gruppo i
bambini sordi di due anni di età (2) ed uno di bambini udenti di due anni (3).
Si è riscontrato che i bambini del gruppo 1 avevano una capacità di
comprensionesimile ai b. del gruppo 3 e che i bambini del gruppo 2 avevano
capacità di comprensione simile ai b. di pochi mesi di vita. Le madri dei b.
sordi utilizzano un linguaggio molto semplificato essendo consapevoli del
deficit dei loro bambini. Per i bambini udenti la modalità più efficace per
attivare la loro attenzione è quella verbale, per i b sordi risulta invece
essere quella di “segnare” il loro spazio visivo.
Uno studio di
Anderson sui bambini ciechi ha evidenziato che i genitori: usano più
frequentemente frasi imperative e interrogative del tipo si/no; adoperano
frequentemente denominazioni e richieste di denominazioni mentre con i bambini
vedenti vengono usate delle ricche descrizioni su oggetti presenti
nell’ambiente circostante; i genitori di b ciechi raramente includono nei loro
discorsi richieste di espansione al bambino ma piuttosto forniscono a
quest’ultimo una seriedi etichette verbali.
In conclusione da questi studi emerge come un input
quantitativamente e qualitativamente diverso da quello di cui usufruisce un
bambino con sviluppo normale non necessariamente vuol dire peggiore, potrebbe
invece rappresentare l’effetto di un processo di adeguamento per creare
condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei bambini con sviluppo tipico.
Dott. Renato Porcelli
Piaget, nella sua Teoria degli Stadi Cognitivi, sostiene che gli sviluppi cognitivo e linguistico passano attraverso una serie di stadi universali e invarianti e sono indipendenti dall’interazione sociale con l’adulto di riferimento.
I bambini con autismo non riescono a “sfruttare” i momenti di attenzione condivisa con l’adulto non alternando lo sguardo tra il partner e l’oggetto/evento in questione. Questi bambini inoltre non guardano il volto dell’adulto per capire come comportarsi in una situazione ambigua e in loro è carente la capacità di usare l’intenzione dichiarativa ovvero non riescono a usare un gesto comunicativo, come può essere il semplice gesto di indicare, per attirare l’attenzione dell’adulto verso un oggetto o un evento esterno alla diade.
I genitori dei bambini che presentano disabilità di vario tipo tendono ad essere più direttivi e meno responsivi dei genitori dei bambini con sviluppo tipico. Il genitore vede l’interazione con il proprio bambino come una << seduta didattica >> quindi fa largo uso di ordini e istruzioni. Le madri dei bambini con ritardo mentale utilizzano inoltre un linguaggio più semplice a livello sintattico.
Uno studio di Longobardi e Caselli degli anni 90, ha confrontato lo stile comunicativo delle madri di bambini con sindrome di Down con quello delle madri con bambini con sviluppo normale della stessa età linguistica. Le madri di bambini con sindrome di Down indirizzano un numero inferiore di iniziative comunicative ai propri bambini e di conseguenza utilizzano meno frequentemente tutte le funzioni comunicative (tutoria, didattica, etc...). Queste madri non hanno però mostrato una preferenza per uno stile comunicativo direttivo.
Uno studio di Nelson e collaboratori ha evidenziato come le madri di bambini con DSL (Disturbo Specifico del Linguaggio) usano meno le espressioni semanticamente collegate agli enunciati del bambino (esempio: il bambino dice “Luca macchina” e la madre risponde “Luca ha la macchina”).
Cross et al. hanno invece confrontato il livello di capacità di comprensione verbale dei bambini sordi e dei bambini udenti. Il campione era composto da un gruppo di bambini sordi di cinque anni di età (1) , un gruppo i bambini sordi di due anni di età (2) ed uno di bambini udenti di due anni (3). Si è riscontrato che i bambini del gruppo 1 avevano una capacità di comprensionesimile ai b. del gruppo 3 e che i bambini del gruppo 2 avevano capacità di comprensione simile ai b. di pochi mesi di vita. Le madri dei b. sordi utilizzano un linguaggio molto semplificato essendo consapevoli del deficit dei loro bambini. Per i bambini udenti la modalità più efficace per attivare la loro attenzione è quella verbale, per i b sordi risulta invece essere quella di “segnare” il loro spazio visivo.
Uno studio di Anderson sui bambini ciechi ha evidenziato che i genitori: usano più frequentemente frasi imperative e interrogative del tipo si/no; adoperano frequentemente denominazioni e richieste di denominazioni mentre con i bambini vedenti vengono usate delle ricche descrizioni su oggetti presenti nell’ambiente circostante; i genitori di b ciechi raramente includono nei loro discorsi richieste di espansione al bambino ma piuttosto forniscono a quest’ultimo una seriedi etichette verbali.
In conclusione da questi studi emerge come un input quantitativamente e qualitativamente diverso da quello di cui usufruisce un bambino con sviluppo normale non necessariamente vuol dire peggiore, potrebbe invece rappresentare l’effetto di un processo di adeguamento per creare condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei bambini con sviluppo tipico.
Dott. Renato Porcelli
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