giovedì 29 settembre 2016
Sogni, ricerca, teorie: perché sogniamo?
I sogni hanno affascinato i filosofi per migliaia di anni, ma solo recentemente sono stati oggetto della ricerca empirica e gli studi scientifici si sono concentrati su di essi.
Innanzitutto, la domanda di base è: che cosa è un sogno? Un sogno può contenere qualsiasi immagine, i pensieri e le emozioni che si vivono durante il sonno. I sogni possono essere straordinariamente nitidi o molto vaghi, possono essere ricchi di immagini felici, comprendere sensazioni spaventose, essere comprensibili o poco chiari e confusi.
Perché sogniamo? A cosa servono i sogni? Sono state proposte molte teorie, in nessuna però vi è un pieno consenso. Considerando l’enorme quantità di tempo che passiamo nello stato di sogno, il fatto che i ricercatori non hanno ancora capito fino in fondo lo scopo e i meccanismi dei sogni, può sembrare sconcertante. Tuttavia, è importante considerare che la scienza e le ricerche continuano a studiare lo scopo esatto e la funzione del sonno stesso.
Alcuni ricercatori suggeriscono che sognare non serva a nulla realmente se non come funzione biologica, mentre altri credono che il sogno sia fondamentale per la mente, sia per il benessere fisico che per quello emotivo.
Ernest Hartmann, direttore dello Sleep Disorders Center di Boston insieme ad altri collaboratori ha elaborato la “Teoria Contemporanea del sogno” : i nostri cervelli creano e disfano delle connessioni neurali, in tutto questo procedimento però c’è un collegamento. In pratica un inizio e una fine; da una parte si trovano le connessioni della veglia ma via via che si prosegue lungo il procedimento, le connessioni si fanno più imprecise e le attività mentali diventano più approssimative, un esempio è il sognare ad occhi aperti. Nella parte opposta si trovano i sogni che sono guidati dall’emozione del sognatore. Quando nel sognatore c’è un’emozione precisa, i sogni sono spesso molto semplici. Le persone che hanno subito un trauma molto forte ad esempio, come fuggire da un palazzo in fiamme, spesso hanno sogni del tipo “ero sulla spiaggia e venivo risucchiato da un’onda anomala”. Il sognatore non sta sognando esattamente l’evento traumatico, ma rivive l’emozione della sopraffazione. Più il sognatore è pervaso da un’ emozione forte, più individuabile sarà il senso del suo sogno.
Ciò che accade ai sogni di colui che vive il trauma si può spiegare così:
nei primi giorni viene sognato esattamente il trauma vissuto. Con il passare del tempo si iniziano a sognare eventi diversi ma comunque traumatici ( essere risucchiati da un’onda). Nelle settimane successive i sogni fanno vivere esperienze traumatiche anche del passato oltre che quelle più recenti.
Con lo scorrere del tempo i sogni inglobano e si connettono con altro materiale (più neutro), presente nella memoria del soggetto, e non si collegano più in maniera esplicita con l’evento traumatico vissuto.
Quindi il sogno sarebbe un’interconnessione di ricordi legati ad altri, fino a rendere blanda l’azione disturbante dell’emozione. Potremmo dire che i sogni funzionano come cancellini delle esperienze vissute nella realtà!
Teoria psicoanalitica dei sogni:
Coerentemente con la prospettiva psicoanalitica , la teoria dei sogni di Sigmund Freud suggerì che i sogni erano una rappresentazione dei desideri inconsci. Secondo la visione psicoanalitica freudiana della personalità, le persone sono guidate da istinti aggressivi e sessuali che sono repressi dalla consapevolezza cosciente. Mentre questi pensieri non sono espressi consapevolmente, secondo Freud, trovano un senso nella nostra consapevolezza, tramite i sogni.
Nel suo famoso libro L’interpretazione dei sogni, Freud scrisse che i sogni sono “… adempimenti camuffati di desideri repressi.” Egli ha anche descritto due diversi componenti di sogni: il contenuto manifesto e il contenuto latente.
Il contenuto manifesto è costituito dalle immagini reali , pensieri e contenuti presenti all’interno del sogno, mentre il contenuto latente rappresenta il significato psicologico nascosto del sogno.
La teoria di Freud ha contribuito alla popolarità dell’interpretazione dei sogni, molto in voga ancora oggi. Tuttavia, la ricerca ha dimostrato che il contenuto manifesto nasconde il vero significato psicologico di un sogno.
Il modello di attivazione di sintesi del sogno è stato proposto da J.Allan Hobson e Robert McCarley nel 1977. Secondo questa teoria, i circuiti nel cervello si attivano durante il sonno REM, il che fa sì che le aree del sistema limbico coinvolto nelle emozioni, sensazioni e ricordi, tra l’amigdala e l’ ippocampo , diventi attivo. Il cervello sintetizza e interpreta questa attività interna e tenta di trovare un significato in questi segnali, traducendosi in sogni. Questo modello suggerisce che il sogno sono un’interpretazione personale di segnali generati dal cervello durante il sonno.
Anche se questa teoria suggerisce che i sogni sono il risultato di segnali generati internamente, Hobson non crede che il sogno sia privo di significato. Invece, egli sostiene che sognare è “… il nostro stato di coscienza più creativa, quella in cui dal caos degli elementi conoscitivi vengono prodotte nuove configurazioni di informazioni. Il tempo speso per sognare non è tempo sprecato”.
Altre teorie sui sogni:
Molte altre teorie sono state proposte per spiegare la presenza e il significato dei sogni. Le seguenti teorie sono solo alcune rispetto a quelle in corso di studio e approfondimento:
una teoria suggerisce che i sogni sono il risultato del nostro cervello che cerca di interpretare gli stimoli esterni durante il sonno. Per esempio, il suono della radio può essere incorporato nel contenuto di un sogno.
la teoria per cui metaforicamente la nostra mente viene accostata a un computer: i sogni servono a fare pulizia nel disordine mentale proprio come le operazioni di pulizia dell’hard disk sul nostro pc. In pratica la mente viene ripulita per il giorno successivo.
la teoria per cui i sogni hanno la funzione di una vera e propria psicoterapia. Il sognatore può fare collegamenti tra diversi pensieri e diverse emozioni in un ambiente sicuro.
http://www.psicosocial.it/sogni-ricerca-teorie-perche-sogniamo/
lunedì 26 settembre 2016
La sindrome del lunedì mattina
Il 30% dei certificati medici di malattia viene presentato al lunedì. A leggere questi numeri verrebbe subito da domandarsi quanti di questi riguardino malesseri reali, e quanti invece siano frutto di pigrizia, connivenza e ruberie varie.
Si può però parlare di Sindrome del lunedì mattina?
Secondo lo psicologo Alex Gardner i lunedì sono così deprimenti al punto da non farci sorridere prima delle 11:16. Portiamo con noi un antico retaggio tribale: durante i week-end socializziamo con i nostri simili e a inizio settimana ne patiamo l’interruzione. Introdurre attività socializzanti sul lavoro potrebbe essere un buon modo per risollevare il morale; via libera dunque ai pranzi con i colleghi e ad altri momenti di condivisione.
In generale, questa Sindrome può essere definita come un insieme di sintomi quali stanchezza, senso di costrizione, vertigini, inappetenza e calo dell’attenzione. Nel fine settimana possiamo dedicarci a noi stessi e ai nostri affetti; al lunedì si torna a reinvestire le energie sul lavoro, sulla scuola, sull’università.
Ci sono alcuni piccoli accorgimenti che possiamo seguire nel week-end, e che possono farci ricominciare la settimana con più energie:
1. introdurre dei momenti ludici durante il week-end. Tante volte ciò di cui necessitiamo può essere del sano riposo, ma dedicarsi completamente all’ozio può farci arrivare alla domenica sera con la sensazione di aver sprecato tempo e opportunità. Per evitare questo rischio e “rivitalizzarci” bastano anche piccoli divertimenti, come guardare un film che ci piace, andare a una mostra o prendere un caffè con un amico.
2. organizzarsi.Quant’è brutto svegliarsi il lunedì mattina e non ricordarsi che fine hanno fatto le chiavi dell’ufficio, la card universitaria, l’abbonamento della metro o il diario? prepararsi con anticipo ci evita ulteriori stress e facilita il rientro al lavoro e a scuola.
3. suddividere i compiti nell’arco del week-end. Che si tratti di un progetto da presentare, di un libro da studiare o un problema di matematica, distribuire queste incombenze ci evita di arrivare in affanno la domenica sera.
4. dormire bene. Durante il week-end abbiamo più tempo per dormire ma andare a dormire eccessivamente tardi, dormire troppo a lungo o troppo poco rischia di sballare il bioritmo e di farci ricominciare più assonnati di prima. Trovare una buona routine nei fine settimana ci farà arrivare al lunedì più freschi e rigenerati.
5. mangiar sano. Concedersi uno strappo di tanto in tanto può starci, ma fagocitare cibo spazzatura per tutto il week-end renderà difficile la digestione, aumentando senso di stanchezza e irritabilità. Piuttosto, possiamo sfruttare il tempo libero per dedicarci alla preparazione di un piatto sano, magari da condividere con i nostri cari…o andare a gustarlo da qualcuno.
6. concedersi una domenica sera rilassante. Dedicarsi alla cura di sè con un bagno caldo, la lettura di un libro o un film con la famiglia ci farà addormentare meglio.
7. svegliarsi qualche minuto prima il lunedì mattina. Può sembrare paradossale, ma anticipare un pochino la sveglia ci concede più tempo per carburare e riprendere la routine con calma. Si può cogliere l’occasione per fare colazione senza fretta e dirigersi tranquillamente al lavoro, magari facendo una piccola passeggiata se le condizioni lo permettono.
Buon lunedì!
https://psicolinee.com/2014/10/06/la-sindrome-del-lunedi-mattina/
mercoledì 31 agosto 2016
L’altra faccia del perfezionismo: perché non bisogna esagerare
In una società come quella occidentale, nella quale
per inserirsi lavorativamente ed essere riconosciuti socialmente bisogna
formarsi per l’intera esistenza ed essere super-specializzati, quali sono le
risorse personali chiamate in causa? Quali le conseguenze a livello psichico e
comportamentale?
La nostra è senza dubbio una società in cui, per
sperare di riuscire, bisogna perfezionare le proprie conoscenze e competenze;
il mondo del lavoro e gli studi superiori contribuiscono a rafforzare le
tendenze perfezionistiche e istigano la persona ad approfondire specifici
settori oltre che a “collezionare” titoli con il massimo dei voti e questo
perché “sapere tutto” o, in ogni caso, più degli altri è diventato
indispensabile per sfondare nel proprio campo di interesse.
Ma cosa si intende per
perfezionismo? In che modo esso influisce nella nostra vita?
Il perfezionismo è un tratto molto importante della
nostra personalità. Essere perfezionisti, infatti, equivale ad essere accurati
in ciò che facciamo, ad essere efficaci e a sfidare se stessi ponendosi
specifici obiettivi da raggiungere. Tale tratto, quindi, può migliorare il
nostro operato e renderci soddisfatti di noi stessi, contribuendo ad aumentare
la nostra autostima nel momento in cui i risultati raggiunti coincidono con gli
obiettivi che ci eravamo posti.
“La perfezione ha un grave difetto; ha la tendenza ad
essere noiosa” (William
Somerset Maugham)
Tuttavia il perfezionismo può assumere proporzioni
esagerate e diventare una vera e propria patologia nel momento in cui si
trasforma in ossessione. Le conseguenze di tale trasformazione possono essere
devastanti per la persona interessata, così come per coloro che le stanno accanto.
Ma esistono diverse tipologie di
perfezionismo? La risposta è sì
Il perfezionismo, infatti, può essere orientato verso
se stessi, verso gli altri o verso l’ambiente sociale; ognuna di queste
tipologie comporta specifiche conseguenze positive e/o negative.
Il perfezionismo rivolto verso se stessi non implica
necessariamente lo svilupparsi di una patologia, ma può provocare un forte
stress nell’individuo che, nei casi limite, potrà porsi obiettivi
irraggiungibili che lo condurranno ad una svalutazione di Sé.
Il perfezionismo verso l’ambiente sociale consiste
nella tendenza a raggiungere la perfezione per soddisfare aspettative del mondo
esterno e potrà avere come conseguenza l’incapacità di leggere i propri
desideri.
Infine, la terza tipologia e, quindi, quella del
perfezionismo rivolto verso gli altri, potrà avere degli effetti devastanti, in
particolare nelle relazioni, poiché la persona tenderà a svalutare e criticare
continuamente il proprio partner.
Il perfezionista patologico, quindi, avrà delle aspettative
irrealistiche associate ad obiettivi irraggiungibili che comportano la sfiducia
in se stessi; al contempo sarà particolarmente sensibile alle critiche ed avrà
il timore di fallire.
Le origini di tali tratti patologici ci riconducono al
vissuto della persona, ovvero alle dinamiche sociali e familiari.
La famiglia e la società possono, infatti, aver
effettuato sin dall’infanzia specifiche pressioni sulla persona che potrà
essersi adattata portando sempre più l’attenzione alle aspettative esterne
piuttosto che ai propri desideri. Tale dinamica, cruciale per lo sviluppo di
disturbi quali quello del perfezionismo patologico, facilita lo svilupparsi
dell’idea che avere il totale controllo del mondo circostante e, quindi, dei
propri comportamenti, possa evitare imprevisti e situazioni fuori programma che
potrebbero far sentire la persona vulnerabile e, quindi, a rischio.
Ma allora, quali sono le condizioni
che ci fanno comprendere che il perfezionismo sia diventato una vera e propria
patologia?
Il film “Qualcosa è cambiato”, interpretato
sapientemente da Jack Nicholson, può dare un’idea di come la perfezione possa
trasformarsi in ossessione e compulsione e, in tal modo, interferire
notevolmente con tutte le attività quotidiane della persona.
È possibile dunque comprendere quando il semplice
perfezionismo sta diventando una patologia nel momento in cui esso interferisce
con le più semplici attività quotidiane e coinvolge coloro i quali sono vicini
alla persona interessata.
In virtù di ciò che è stato detto, le patologie
maggiormente associate al perfezionismo patologico sono principalmente
tre: il disturbo ossessivo-compulsivo; l’ansia sociale e la depressione
Il primo ha alla base l’esigenza di controllo degli
oggetti e del propri gesti; l’ansia sociale, in questi casi generata da una
eccessiva paura del giudizio altrui, limita notevolmente i contatti con gli
altri e, infine, la depressione può essere causata dalla svalutazione di Sé e
dalla perdita di autostima conseguentemente all’impossibilità di raggiungere i
propri obiettivi.
Se da un lato, quindi, essere perfezionisti può
aiutarci a migliorare la nostra vita facendoci raggiungere obiettivi che ci
faranno essere fieri di noi, dall’altro è importante non esagerare e, ogni
tanto, prendersi il lusso di essere un po’ imperfetti!
mercoledì 3 agosto 2016
Perché si fa fatica a chiedere?
Chiedere è sempre stato difficile per tutti, un pò
per un moto di orgoglio personale, un pò per quel senso di indipendenza che ci
piacerebbe poter portare avanti in ogni caso.
Chiedere
significa umiliarsi, risultare insistenti con le persone, dimostrarsi assertivi
(ossia fornire la propria opinione senza trascurare l’altro, ma non farsi
sottomettere da nessuno), chiedere è legittimo e rispondere è cortesia.
Sembrerebbe
che chiedere sia una
sorta di sottomissione e di obbligazione verso l’altro, come se
si scomodasse e fosssimo in dovere di ricambiare la richiesta prima o poi.
Il
film di Pier Paolo Pasolini “Che cosa sono le nuvole” del 1967 ha al suo
interno un dialogo tra burattini, Otello e Jago, interpretati da Ninetto Davoli
e da Totò, in cui si affronta il tema della verità.
Essa
è soggettiva, dipende dal momento e dalla persona che la nomina, non può essere
detenuta da nessuno, varia a seconda della relazione che si instaura tra i
soggetti, è legata al fatto che ogni essere nasce e muore da solo.
Bisogna
comprendere, in altre parole, che il fatto di chiedere è legato al dialogo, che si può
spingere fino ad un certo punto, poichè la solitudine è diagnosi e terapia allo
stesso tempo di sè, il corpo delimita lo spazio che la mente vorrebbe
prevaricare ma non può farlo perchè anzitutto c’è il singolo.
Chiedere
è anzitutto un dovere verso sè stessi, più che dalle risposte il valore
di una persona si misura dalle domande che si riescono a porre.
Sono
diversi i motivi per cui si
fa fatica a chiedere: orgoglio, mancanza di volontà di
ammettere di avere un problema, vergogna, timore del rifiuto, paura del
giudizio degli altri; ecco, alla base di tutto ci dev’essere la liberazione
dalla dipendenza dal giudizio altrui.
Chiedere
è sempre lecito, a prescindere dalla risposta che si ottiene.
martedì 2 agosto 2016
Come evitare lo stress da vacanza
L’idea
che le vacanze possano diventare motivo di stress appare assurda, eppure in prossimità delle ferie e delle
partenze estive possono verificarsi cali del tono dell’umore, difficoltà nel
sonno, irritabilità, mal di testa e altri disturbi fisici di lieve o moderata
entità riconducibili a fattori psicosomatici.
L’insieme
di questi sintomi può essere ricondotta a una sindrome da stress e perturbare, a volte
in modo significativo, la ricerca del relax e dello svago tanto attesi dopo
mesi di lavoro.
Se da un punto di vista logico la cosa non ha alcun
senso, da un punto di vista psico-logico può essere spiegata col fatto che ogni
evento che stimola una risposta emotiva intensa o implica un cambiamento
marcato delle abitudini, sia esso positivo o negativo, comporta una certa
quantità di stress, variabile a seconda del contesto e della persona.
Lo
stress è da intendersi come un fisiologico adattamento dell’organismo a un
cambiamento del sistema in cui abitualmente funziona, perciò non si tratta necessariamente
di un indicatore preoccupante ma di una risorsa che può predisporre la persona
a compiere le scelte più appropriate per reagire a una situazione nuova.
Perciò niente paura e niente allarmismi estivi: un po’ di ansietà e
di affanno durante i primi giorni di ferie o di viaggio può essere interpretata
come una positiva fase di predisposizione psicologica, per poi immergersi a
fondo nella meritata vacanza.
Nei casi in cui lo stress persiste, ovvero quando i
sintomi non si attenuano ma aumentano o si stabilizzano ad un livello avvertito
con disagio e preoccupazione, invece, è probabile che la condizione di riposo
data dalle ferie anziché distendere e confortare la persona, favorisca
l’emersione di problematiche che l’impegno lavorativo consentiva di “tenere
sullo sfondo”.
In
questo senso, non è la vacanza in sé a scatenare lo stress e i suoi sintomi, ma
motivazioni soggettive di cui la persona può non avere, o non voler avere,
piena consapevolezza. Per esempio, chi
va in ferie in una situazione di conflittualità o precarietà lavorativa può
reagire con stress al fatto di non poter più controllare quanto accade sul
posto di lavoro in sua assenza e, così, sperimentare la pesante sensazione di
“non riuscire a staccare” e di non godere pienamente di ciò che fa in vacanza.
O
ancora, se la persona vive con insoddisfazione un rapporto sentimentale, la
pausa estiva condivisa col partner può trasformarsi in una trappola per la
coppia; così l’apatia,
il disamore o l’insofferenza si trasformano in stress da vacanza, una
motivazione consciamente più accettabile, anche se decisamente costosa.
Altri elementi che possono favorire lo stress da vacanza sono relativi
all’aspettativa eccessiva di divertimento o benessere riposta nel periodo di
ferie, ovvero all’idealizzazione
di un viaggio o di un’esperienza programmata come fossero magici rimedi alla
restante parte dell’anno, magari passata a ricorrere ritmi trafelati
o a rimediare a problemi di varia natura.
Infine,
alcune persone spendono
nella vacanza ogni energia alla ricerca vorace e irrealistica di nuove
emozioni, per poi rientrare sfibrate e frastornate alla quotidianità senza aver
stabilito qualche giorno di “decompressione” necessario per
evitare che lo stress da vacanza si manifesti nel bel mezzo del rientro a
lavoro.
Ciò che può aiutare a combattere lo stress, e non solo
quello da vacanza, è acquisire la capacità di fermarsi, di “stare” per davvero
al centro dei fatti e delle relazioni della propria vita invece che
affrettarsi a correre in spiaggia o a volare per chissà quale meta.
In
parte, questo significa imparare ad “annoiarsi”, a dondolare lentamente e
placidamente per un po’ nel proprio tempo e nel proprio corpo, evitando la
perenne tentazione di fuggire altrove.
venerdì 29 luglio 2016
Anche noi siamo responsabili per il modo in cui ci trattano gli altri
“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo
fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” Tutti, sia ora che in
passato, abbiamo mosso delle critiche personali verso qualcuno, anche solo per
giudicare il suo nuovo taglio di capelli, l’abbigliamento o una scelta non
condivisa.
Siamo in grado di rilevare la
manipolazione, l’inganno, l’aggressività e la mancanza di impegno negli altri,
ma quando si tratta di noi, il metro cambia.
Non abbiamo mai scaricato sugli altri il nostro
cattivo umore, non ci siamo comportati come camion della spazzatura, non
abbiamo mai manipolato qualcuno? È difficile crederlo, semplicemente perché le
persone perfette non esistono e anche noi sbagliamo.
Il fatto che non siamo manipolatori esperti in stile
Machiavelli, o che non ci lamentiamo sempre, non vuol dire che a volte non ci
trasformiamo in vampiri emotivi che, anche senza rendersene conto, rubano
l’energia a chi è vicino a loro.
Guardiamo di più verso l’esterno che
verso l’interno
Indubbiamente, scaricare la responsabilità fuori di
noi è molto comodo. La colpa è sempre del funzionario troppo rigido o troppo
permissivo, del collega di lavoro incapace o troppo efficiente, del partner che
non ci ama abbastanza o che ci soffoca, della politica o degli apolitici… C’è
sempre un colpevole, un capro espiatorio che ci aiuta a liberarci dalla
responsabilità.
Tuttavia, guardare dentro di noi è molto più
complicato, prima di tutto, perché significa fare un esame di coscienza, e
quello che troviamo non sempre ci piace. Siamo profondamente polarizzati, anche
se non ce ne rendiamo conto, perché i cattivi sono sempre gli altri, e i buoni
siamo ovviamente noi. Preferiamo evitare qualsiasi traccia che metta in dubbio
questa immagine che abbiamo costruito.
D’altra parte, guardare dentro di noi implica
cominciare ad assumere le nostre responsabilità, il che significa che abbiamo
capito che possiamo fare qualcosa, per quanto piccolo, per migliorare. E a
volte questo ci rende pigri.
La conoscenza di sé è una strada lunga e difficile, ma
è importante essere consapevoli di ciò che sperimentiamo, sentiamo ed
esprimiamo. All’inizio può far male, ma prendere conoscenza dell’aggressività,
del dolore, della paura o delle insicurezze ci rende persone migliori.
Come possiamo favorire i rapporti
tossici?
Spesso non ci rendiamo conto, ma ogni volta che
assumiamo il ruolo delle vittime ci rifiutiamo di intervenire nella questione.
Scaricando la responsabilità sull’altro ci rifiutiamo di agire e, di
conseguenza, scegliamo di soffrire. È come se ci consegnassimo al boia con le
nostre mani.
Nel caso dei rapporti tossici avviene lo stesso. In
ogni relazione esistono due ruoli, quindi, in un certo senso, anche noi siamo
responsabili per il modo in cui ci trattano gli altri. Ad esempio, alimentiamo
un rapporto di coppia tossico ogni volta che diamo prova della nostra fedeltà
al partner quando questo si mostra geloso senza alcun motivo.
Alimentiamo una relazione tossica ogni volta che
prestiamo troppa attenzione ad un amico che si comporta da vittima, ogni volta
che lo commiseriamo senza fare nulla per aiutarlo a uscire da quello stato.
Alimentiamo una relazione tossica ogni volta che cediamo, ci adattiamo o ci
mostriamo sottomessi a una persona dominante e aggressiva.
Naturalmente, in alcuni casi non possiamo cambiare gli
atteggiamenti e comportamenti di quella persona. Ma siamo in grado di decidere
se cadere o meno nel suo gioco.
Anche l’auto-tossicità è dannosa
Ci sono persone che creano una tempesta in un bicchier
d’acqua e poi si lamentano perché piove. Infatti, molti si preoccupano
eccessivamente dei loro rapporti interpersonali e fanno di tutto per rispettare
gli altri e non far loro del male, ma trascurano se stessi. Come risultato, non
esprimono la tossicità che resta dentro di loro.
Gran parte della vita ruota intorno ai rapporti che
costruiamo. Ed è grazie a ciascuno di essi che diventiamo maturi, che mettiamo
alla prova le nostre capacità sociali e i valori che abbiamo. È proprio
grazie ai rapporti che abbiamo la possibilità di forgiare costantemente la
nostra personalità.
Ma lungo la strada è molto probabile
incontrare persone che pretendono sempre di più da noi, al punto da
diventare fonte di stress e di esaurimento emotivo. In questo caso bisogna
capire se il rapporto ci porta o meno a qualcosa di positivo, ed eventualmente
prendere delle decisioni.
“Nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò
andando avanti non è importante come colpisci, l’importante è come sai
resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di
rialzarti. Così sei un vincente!” Dal film “Rocky Balboa”
Pertanto, è importante assicurarsi di non espandere
questa tossicità. Ti comporti in modo tossico con te stesso quando:
- Resti accanto a una persona che ti disprezza e ti tratta male
- Ti recrimini per i tuoi errori o sei troppo esigente con te stesso
- Non ti preoccupi dei tuoi bisogni e non ti azzardi a chiedere quello che vuoi
- Ignori le tue emozioni e, invece di comprenderle decidi di reprimerle
- Ti concentri solo sugli aspetti negativi e adotti un atteggiamento pessimistico
- Non riconosci il tuo valore e lasci che siano gli altri a giudicarti
Cosa fare?
Forse non possiamo evitare sempre di comportarci in
modo tossico perché portiamo sulle nostre spalle troppi condizionamenti. Ma
possiamo divenire consapevoli di questi comportamenti e chiedere scusa, agli
altri o a noi stessi, a seconda dei casi. Vale sempre la pena di guardare
dentro di noi. E farlo con umiltà è ancora meglio.
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