Entra nello Zanichelli del 2015 la parola selfie, già nel 2013 parola dell’anno
dell’Oxford English Dictionary, che ha spopolato sui media e di conseguenza
nelle vite di tutti noi. Lo definiscono “Una fotografia scattata a sé stessi, in genere con uno smartphone
che viene condivisa su un social network” e ha dato inizio ad una vera e propria
mania. Ma qual è la sua funzione? Principalmente, la differenza tra il vecchio
autoscatto e l’attuale selfie è l’autorappresentazione e la condivisione con gli altri.
L’attività di scattare immagini a sé stessi è collegata alla dimensione
narcisistica posseduta dall’individuo, alla ricerca di una gratificazione sia
quando le foto si condividono, sia quando restano un fatto privato. Ma nel
momento in cui diventano un fatto pubblico si cura di più la luce, la posizione
e gli effetti, poi i sorrisi, le smorfie (principalmente di chi lo pubblicherà)
e, più in generale, del gruppo di soggetti fotografati: insomma la chiave di volta diventa il
passaggio dal privato al pubblico. Solo in questo modo, la
popolarità di un selfie diventa disarmante, come quella delle stars dell’Oscar
del 2014, che hanno avuto più di ottantamila condivisioni in circa tre minuti.
Sinonimo di Selfie diventano, allora,
le parole “accettazione” e “appagamento”. Nonostante possa sembrare banale e
scontato un legame tra ammirazione della propria immagine fisica e selfie, l’Ohio State University ne ha dato valenza scientifica.
Ha condotto una ricerca che prevedeva un campione prettamente maschile di 800
uomini di età compresa tra i 18 e il 40 anni, intervistati sui propri
comportamenti “sociali” di autoreferenzialità, che fanno, cioè, esclusivamente
riferimento a sé stessi. Domande del genere “Quante volte scatti un selfie in un giorno?”, “Quanti di questi vengono
pubblicati o condivisi?”, “In che modalità?”, “Applichi ritocchi?”, e domande sul proprio livello di
autostima, narcisismo, oggettivazione di sé (qualità che raccontano quanto
l’apparire sia una priorità per la persona) hanno implicato risposte di sovrastima di sé e delle
proprie caratteristiche fisiche. Ciò che spaventa è una certa
tendenza all’asocialità e a sviluppare psicopatie,
caratterizzata da mancanza di empatia e interesse per gli altri, oltre che una
tendenza a comportamenti impulsivi.
Per psicopatia si
intende un disturbo caratterizzato da deficit di empatia, rimorso, emozioni
nascoste, egocentrismo. Comportamenti aggressivi e probabilità di avere
condotte aggressive e violente. Siamo sinceri, l’epoca Social ci presenta una
realtà differente, che a volte ci estranea e rende la nostra vita emotiva
povera e superficiale. Ovviamente, non significa che la selfie mania comporta
necessariamente un disturbo, in quanto, ahimé, non posso negare che gli
psicologi spesso (ma non sempre) amano le categorie e la bipolarità, del genere o normale o patologico.
Il fotoritocco è ovviamente più legato al narcisismo, all’insicurezza di sé e alla messa
in discussione del proprio corpo, sempre sotto lo sguardo dei giudizi altrui.
Il bisogno di ammirazione, l’estrema grandiosità e la carenza di empatia
rappresentano il narciso perfetto, che, chi più e chi meno, un po’
rappresenta ognuno di noi.
Ormai conosciuto da grandi e piccini, anche La Repubblica,
nel giorno dell’eclissi dello scorso Marzo, ha attratto l’attenzione dei
lettori con un articolo intitolato “Attenzione, arriva l’eclissi ma niente selfie al sole che diventa
nero”, sicuri di cogliere l’attenzione con un titolo che certamente
avrebbe interessato tutti, già pronti con il cellulare alla mano. Così, il
giorno dell’eclissi le bacheche di Facebook hanno raccolto tutti i cieli neri
fotografati da ogni parte del Mondo, ma senza selfies. Almeno per una volta.