Una
famiglia entra in ristorante e si siede a un tavolo accanto al mio. I genitori
hanno forse quarant’anni e il bambino circa sei anni. Sono ben vestiti per il
pranzo della domenica e hanno tutti un aspetto sereno e curato. Mi colpisce il modo in cui prendono
posto. Il padre si siede dal lato lungo del tavolo rettangolare, la moglie
accanto a lui e il bambino viene messo a capotavola. Formano una elle, una
posizione strana perché sfavorisce la comunicazione e il contatto oculare.
E,
in effetti, il cameriere non fa in tempo ad arrivare che la donna consegna al piccolo uno
smartphone. Nella sala si diffonde la musichetta allegra di un
viedogame e lei subito regola il volume per evitare che disturbi gli altri
clienti. Da questo momento il bambino terrà gli occhi incollati al diplay per
tutto il tempo, salvo all’arrivo delle quattro portate del menù che
interrompono brevemente l’immersione ipnotica nel telefonino.
Ma quello che trovo stupefacente è che il padre dopo aver
ordinato sfila dalla tasca un phablet, lo colloca orizzontalmente tra il piatto
e il calice dell’acqua e per l’intero pranzo si guarda la Formula uno. Anche lei tra un
boccone e l’altro spippola un iphone e i pochi scambi che colgo solo mezze
frasi, risatine per un post su Facebook e commenti su messaggi in arrivo. Il
tutto nel segno di un contatto oculare praticamente nullo che si protrae per il
lungo menù domenicale.
Scene come questa sono sempre più frequenti nella società
degli smartphone e obbligano a riflettere sulle conseguenze relazionali e
affettive dell’abuso di app, video, giochi, messaggistica e social-network. Infatti, la qualità
di una relazione affettiva è legata all’alternanza e alla reciprocità del contatto
oculare e della prossimità fisica. Gli studi sull’attaccamento hanno da tempo
evidenziato che la scarsità della connessione visiva da madre e bambino
costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo psicologico del figlio,
quando non un indicatore di patologia.
Ma
basta riconoscere che la
prima cosa che facciamo quando nutriamo sentimenti si ostilità, di rabbia, di
imbarazzo o disinteresse è interrompere il contatto visivo per comprendere che
l’importanza dello sguardo nella qualità delle relazioni.
L’intrusione scriteriata dei telefoni nel flusso comunicativo comporta una distorsione più profonda dei processi psichici e interpersonali di quanto immaginiamo, ma, come dimostra la famiglia del ristorante, è sempre più “normale” non guardarsi negli occhi, non parlare o interrompere di continuo un’interazione faccia a faccia per guardare uno schermo.
L’intrusione scriteriata dei telefoni nel flusso comunicativo comporta una distorsione più profonda dei processi psichici e interpersonali di quanto immaginiamo, ma, come dimostra la famiglia del ristorante, è sempre più “normale” non guardarsi negli occhi, non parlare o interrompere di continuo un’interazione faccia a faccia per guardare uno schermo.
Soprattutto
per i bambini, l’abitudine allo smartphone e tecnologie correlate costituisce
un fattore di rischio gravissimo nello sviluppo delle capacità empatiche e
dell’intelligenza sociale,
perché la funzione del contatto visivo è quella di attivare quelle aree del
cervello deputate alla decodifica delle emozioni, proprie e altrui e, in
particolare dei neuroni specchio fondamentali nella regolazione
dell’interazione sociale.
Ora,
tornando alla famiglia dell’esempio, si rifletta sulla posizione scelta al
tavolo, tale che nessuno dei presenti possa guardare l’altro in faccia. È la
posizione più spontanea se si è persa un’attitudine alla comunicazione e se, in
qualche modo, si è abituati a mangiare col telefono in mano. Come potrà quel bambino saper
comunicare le proprie emozioni quando è abituato al silenzio e all’alienazione
della prossimità oculare e fisica? E in che modo i genitori sapranno recuperare
la qualità di un legame continuamente spezzato dall’invadenza di messaggi e
distrazioni informatiche?
Come psicoterapeuta comincio a osservare gli effetti
deleteri e sottovalutati della perdita del contatto oculare interpersonale e
della capacità di stabilire una connessione emotiva autentica con gli altri nei
pazienti più giovani, i cosiddetti nativi digitali e quelli della generazione
che li ha immediatamente preceduti. La loro sofferenza è marcata dalla
difficoltà con cui verbalizzano le proprie emozioni e riconoscono quelle
altrui, dalla povertà degli scambi affettivi coi loro partner e dalla
repentinità con cui si prendono e si lasciano al trillo di un messaggio di
Whatsapp. Sono assuefatti ai social, dove consumano intere epopee amorose e
dove le storie, una volta finite ci trascinano in una sorta di coma
cibernetico, che le tiene dolorosamente “vive”.
Portano il cellulare in terapia per leggere le
comunicazioni che li hanno feriti, si lambiccano nel tentativo di decodificare
gli affetti sulla base di scambi virtuali e poi, quando si incontrano faccia a
faccia si paralizzano e sperimentano un’incompetenza emotiva segnata da silenzi
interrotti da asserzioni dogmatiche, luoghi comuni e frasi fatte. Il risultato è un
mondo relazionale sfilacciato, un contesto di rapporti fragili, di ambivalenza
e di malessere alimentati dal ricorso a emoticons, cartelli preconfezionati su
Facebook e sms nel tentativo disfunzionale di imbastire il contatto da cui
risulta il peggioramento del contatto stesso.
Purtroppo
non è banale affermare che la superficialità con cui permettiamo alla
tecnologia di alterare i processi comunicativi faccia a faccia sta riducendo e
distorcendo a livello globale la competenza umana su cui si basano una mente
sana e una società sana: l’empatia.http://enricomariasecci.blog.tiscali.it/2016/07/02/la-societa-degli-smartphone-e-la-distruzione-dellempatia/?doing_wp_cron
Nessun commento:
Posta un commento