“Hai presente quando ti ho detto che a noi adolescenti insegnano a non
bere niente che non ci siamo preparati da soli? Beh! È una regola che vale per
tutti.”
“Hard Candy” è
un thriller psicologico del 2005 diretto
da David Slade.
Nel film la protagonista è Hayley Stark,
una ragazza di quattordici anni dall'aspetto innocente, ma che si dimostra molto
più matura dei suoi coetanei. La giovane ragazza frequentando delle chat, un
giorno si “imbatte” nel trentenne fotografo Jeff. Dopo alcune settimane di
conversazioni virtuali, Jeff propone a Hayley di incontrarsi, per poi andare insieme
a casa di quest’ultimo. Ed è proprio nella bella villa del fotografo, che una
tranquilla giornata soleggiata si trasformerà in un incubo, perché dietro la
sua aria innocente, Hayley nasconde la volontà di scoprire la verità sulla tragica
scomparsa di una sua amica.
La trama
complessivamente ruota attorno a elementi non nuovi del genere giallo: un
crimine, un sospetto e un detective, tuttavia declinati in una versione
speciale, il crimine presunto è dei più terribili, ovvero l’abuso su minori, la
colpevolezza del sospetto è tutta da dimostrare e sulle tecniche di indagine, specie
come ottenere una confessione, si potrebbe discutere a lungo.
“Hard Candy”, che già
il titolo sintetizza le qualità principali dell’opera, ovvero tenero e duro, è
un film che gioca sui confini
e sulle zone d’ombra, ribaltando spesso il ruolo di supposto carnefice,
mischiando pedofilia a sadismo e forzando lo spettatore al principale scopo
della storia, ovvero l’esercizio continuo del dubbio.
Ci sono vari momenti durante i quali
siamo quasi convinti e pronti a schierarci con una delle due parti in gioco
salvo poi ricrederci poco dopo.
Basta una mezza frase, un sorriso fuori
posto, un’allusione di troppo che subito ci ricrediamo e non sappiamo che pensare.
Questo film ha lo scopo di destabilizzare,
di giocare con la mente e le convinzioni dello spettatore, ponendoci di fronte
alle domande a cui non si riesce a trovare risposta: Può esistere del bene nel
male? Ci sono dei netti confini tra ciò che è giusto e sbagliato? Quanto c’è di
cultura e di natura dell’orrore?
La parola chiave di “Hard Candy” è sovversione,
soprattutto dei ruoli, il potenziale carnefice si fa disintegrare dalla
potenziale vittima.
E’ impossibile identificarsi e
parteggiare per l’uno o l’altro dei protagonisti, la crudeltà di Hailey è così
sistematica, incessante, fredda, chirurgica da rendere il contrasto col suo
aspetto angelico assolutamente disturbante.
Jeff ci viene presentato come un uomo
ferito nei sentimenti, ancora lacerato dalla conclusione di una storia d’amore
“adulta”, e se da una parte dovremmo provare pietà per lui, dall’altra sarà
impossibile non sentire disgusto e rabbia per la colpa di cui viene accusato,
ovvero essere un pedofilo.
“Hard Candy” è strutturato come un
continuo gioco di ribaltamento di prospettive, di sovversioni, appunto, che
sbattono i pensieri dello spettatore da una posizione all’altra impedendogli di
costruirsi un’opinione univoca sugli eventi del film.
Anche le identità dei protagonisti sono
ambigue e contrastanti, subendo evoluzioni e regressioni continue, se il personaggio
di Jeff viene composto pezzo per pezzo ad ogni battuta, quello di Hailey sfuma
progressivamente fino a diventare un’incognita, una sedicente metafora di ogni
vittima che si è arrogata il ruolo di punitrice indifesa. Ed in questo suo
agire, perde personalità ed umanità, riducendosi, pur nella sua genialità nel
manipolare la psiche altrui, ad un’arma di distruzione programmata per un solo
ed unico scopo.
“Hard
Candy” descrive in modo compiuto l’impossibilità di trovare una soluzione equilibrata,
civile, sensata e scevra di emotività alla crudeltà dell’animo umano.
Per quanto ambigua la situazione possa
apparire, il tema degli abusi sessuali e delle violenze su minori emerge in
maniera sottile,come un’ombra, ma allo stesso tempo devastante, una tematica
che crea ancora molti dibattiti e confusione, in quanto è difficile riuscire a
comprendere l’orrore e la sofferenza che può vivere un uomo carnefice di un
bambino, ma il genio di questo film è rappresentato proprio dalla mancanza di
punti di rifermento, dal non sapere chi è l’eroe e chi il cattivo, ci offre il “permesso”
di entrare della mente di queste persone, autori degli atti più oscuri.
Collegato a ciò, si apre una
riflessione anche sulla facilità con cui oggi queste giovani vittime possono
essere adescate, dovuto all’uso smodato di internet per relazionarsi al mondo. Nel
film inoltre non vengono mostrate “protezioni”, reti di sostegno sociali e
psicologiche e nessuna forma di tutela genitoriale, insomma manca il supporto ed
allora diventa inevitabilmente uno scontro diretto, in cui la vittima per non
soccombere fa fede ad una giustizia personale.
“Hard candy” ha la forza di porci di
fronte al concetto di umanità nel modo più crudo, ci pone di fronte ad uno
specchio e ad interrogativi esistenziali, ci mostra quelle parti della nostra
identità che cerchiamo ogni giorno di tenere a bada, come la vendetta, la violenza,
la rabbia e l’odio più puro.
Nel film intenzionalmente manca la
morale, come se si ritornasse ad uno stato di primordialità, in cui le regole sociali
ancora non sono state scritte.
È un film teatrale, provocatorio, morboso
e contrastante e il suo obiettivo lo centra appieno, abbandonando lo spettatore
in uno stato di completa confusione, morale e mentale.
Non torneremo a casa con una chiara
percezione del bene o del male, ma turbati e confusi, con quel senso di disagio
che si prova quando si assiste alla lotta tra diverse forme di malvagità, il
lieto fine in questo caso è il trionfo della parte più oscura dell’uomo, che fa
paura, ma che rimane comunque una parte di noi.
Dott.ssa
Valentina D’Alessio, laureata in Psicologia e tirocinante presso l’Obiettivo
Famiglia Onlus di Pescara
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