martedì 9 febbraio 2016

HARD CANDY

“Hai presente quando ti ho detto che a noi adolescenti insegnano a non bere niente che non ci siamo preparati da soli? Beh! È una regola che vale per tutti.”


“Hard Candy” è un thriller psicologico del 2005 diretto da David Slade.
Nel film la protagonista è Hayley Stark, una ragazza di quattordici anni dall'aspetto innocente, ma che si dimostra molto più matura dei suoi coetanei. La giovane ragazza frequentando delle chat, un giorno si “imbatte” nel trentenne fotografo Jeff. Dopo alcune settimane di conversazioni virtuali, Jeff propone a Hayley di incontrarsi, per poi andare insieme a casa di quest’ultimo. Ed è proprio nella bella villa del fotografo, che una tranquilla giornata soleggiata si trasformerà in un incubo, perché dietro la sua aria innocente, Hayley nasconde la volontà di scoprire la verità sulla tragica scomparsa di una sua amica.
La trama complessivamente ruota attorno a elementi non nuovi del genere giallo: un crimine, un sospetto e un detective, tuttavia declinati in una versione speciale, il crimine presunto è dei più terribili, ovvero l’abuso su minori, la colpevolezza del sospetto è tutta da dimostrare e sulle tecniche di indagine, specie come ottenere una confessione, si potrebbe discutere a lungo. 
“Hard Candy”, che già il titolo sintetizza le qualità principali dell’opera, ovvero tenero e duro, è un film che gioca sui confini e sulle zone d’ombra, ribaltando spesso il ruolo di supposto carnefice, mischiando pedofilia a sadismo e forzando lo spettatore al principale scopo della storia, ovvero l’esercizio continuo del dubbio.
Ci sono vari momenti durante i quali siamo quasi convinti e pronti a schierarci con una delle due parti in gioco salvo poi ricrederci poco dopo.
Basta una mezza frase, un sorriso fuori posto, un’allusione di troppo che subito ci ricrediamo e non sappiamo che pensare.
Questo film ha lo scopo di destabilizzare, di giocare con la mente e le convinzioni dello spettatore, ponendoci di fronte alle domande a cui non si riesce a trovare risposta: Può esistere del bene nel male? Ci sono dei netti confini tra ciò che è giusto e sbagliato? Quanto c’è di cultura e di natura dell’orrore?
La parola chiave di “Hard Candy” è sovversione, soprattutto dei ruoli, il potenziale carnefice si fa disintegrare dalla potenziale vittima.
E’ impossibile identificarsi e parteggiare per l’uno o l’altro dei protagonisti, la crudeltà di Hailey è così sistematica, incessante, fredda, chirurgica da rendere il contrasto col suo aspetto angelico assolutamente disturbante.
Jeff ci viene presentato come un uomo ferito nei sentimenti, ancora lacerato dalla conclusione di una storia d’amore “adulta”, e se da una parte dovremmo provare pietà per lui, dall’altra sarà impossibile non sentire disgusto e rabbia per la colpa di cui viene accusato, ovvero essere un pedofilo.
“Hard Candy” è strutturato come un continuo gioco di ribaltamento di prospettive, di sovversioni, appunto, che sbattono i pensieri dello spettatore da una posizione all’altra impedendogli di costruirsi un’opinione univoca sugli eventi del film.
Anche le identità dei protagonisti sono ambigue e contrastanti, subendo evoluzioni e regressioni continue, se il personaggio di Jeff viene composto pezzo per pezzo ad ogni battuta, quello di Hailey sfuma progressivamente fino a diventare un’incognita, una sedicente metafora di ogni vittima che si è arrogata il ruolo di punitrice indifesa. Ed in questo suo agire, perde personalità ed umanità, riducendosi, pur nella sua genialità nel manipolare la psiche altrui, ad un’arma di distruzione programmata per un solo ed unico scopo.
“Hard Candy” descrive in modo compiuto l’impossibilità di trovare una soluzione equilibrata, civile, sensata e scevra di emotività alla crudeltà dell’animo umano.
Per quanto ambigua la situazione possa apparire, il tema degli abusi sessuali e delle violenze su minori emerge in maniera sottile,come un’ombra, ma allo stesso tempo devastante, una tematica che crea ancora molti dibattiti e confusione, in quanto è difficile riuscire a comprendere l’orrore e la sofferenza che può vivere un uomo carnefice di un bambino, ma il genio di questo film è rappresentato proprio dalla mancanza di punti di rifermento, dal non sapere chi è l’eroe e chi il cattivo, ci offre il “permesso” di entrare della mente di queste persone, autori degli atti più oscuri.
Collegato a ciò, si apre una riflessione anche sulla facilità con cui oggi queste giovani vittime possono essere adescate, dovuto all’uso smodato di internet per relazionarsi al mondo. Nel film inoltre non vengono mostrate “protezioni”, reti di sostegno sociali e psicologiche e nessuna forma di tutela genitoriale, insomma manca il supporto ed allora diventa inevitabilmente uno scontro diretto, in cui la vittima per non soccombere fa fede ad una giustizia personale.
“Hard candy” ha la forza di porci di fronte al concetto di umanità nel modo più crudo, ci pone di fronte ad uno specchio e ad interrogativi esistenziali, ci mostra quelle parti della nostra identità che cerchiamo ogni giorno di tenere a bada, come la vendetta, la violenza, la rabbia e l’odio più puro.
Nel film intenzionalmente manca la morale, come se si ritornasse ad uno stato di primordialità, in cui le regole sociali ancora non sono state scritte.
È un film teatrale, provocatorio, morboso e contrastante e il suo obiettivo lo centra appieno, abbandonando lo spettatore in uno stato di completa confusione, morale e mentale.

Non torneremo a casa con una chiara percezione del bene o del male, ma turbati e confusi, con quel senso di disagio che si prova quando si assiste alla lotta tra diverse forme di malvagità, il lieto fine in questo caso è il trionfo della parte più oscura dell’uomo, che fa paura, ma che rimane comunque una parte di noi.


Dott.ssa Valentina D’Alessio, laureata in Psicologia e tirocinante presso l’Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara

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