martedì 2 febbraio 2016

MA DOVE VADO SE NON PARTO?

Nel pensare di scrivere una pagina dedicata al tema dei cosiddetti blocchi evolutivi mi è automaticamente venuta in mente questa citazione di un famoso libro degli anni ’90, Va’ dove ti porta il cuore. Sempre più spesso capita invece di incappare in giovani adulti tra i venti ed i trent’anni che restano bloccati per un tempo variabile in un loop esistenziale dal quale faticano ad uscire. Frequentemente è la scelta dell’Università a creare empasse, specialmente se si tratta di dover lasciare la propria città di origine per recarsi in una nuova, ma la crisi può arrivare anche nel momento in cui si deve scegliere la propria carriera lavorativa, in cui ci si trova a confrontarsi con l’idea di andare a vivere da soli o di mettere in piedi una relazione affettiva stabile.
E’ quindi nel momento in cui la persona deve affrontare le cosiddette crisi evolutive, per prendere a prestito un termine mutuato dalla teoria Psicosociale di E. Erikson, ossia quando deve misurarsi con gli ostacoli e le sfide peculiari di quella fase della sua esistenza, che possono emergere tutte le difficoltà rimaste latenti fino a quel momento, con conseguenze talvolta anche significativamente negative sul piano del benessere psicologico. Non è infrequente infatti che l’individuo sviluppi quadri ansiosi o depressivi di entità variabile, o che accusi disturbi tipo attacchi di panico.

Per quella che è la mia personale esperienza clinica una rilevante quota di persone che si descrivono bloccate nel proprio percorso evolutivo sono quelle che arrivano dalle cosiddette “famiglie invischianti”.
Sono famiglie tendenzialmente ansiose, chiuse al mondo esterno e se viste da fuori la coesione tra i membri appare estremamente alta. Lo stile parentale è prevalentemente improntato al controllo ed alla colpevolizzazione, la tendenza al volersi bene comprende anche il pensarla tutti allo stesso modo ed è prevalentemente inibita la possibilità di esplorare il mondo autonomamente. Il bambino a cui viene continuamente passato il messaggio, sia sul piano verbale sia sul piano non verbale, che il mondo esterno è pericoloso, che solo in casa si è al sicuro, che solo la famiglia può offrire un valido punto di riferimento, svilupperà quasi certamente dei tratti di dipendenza dalle figure di riferimento ed al contempo strutturerà un vissuto di insicurezza che, qual ora dovesse consolidarsi nel tempo, andrebbe progressivamente ad inibire lo sviluppo dell’autostima e di autonome capacità di competenza e di padroneggiamento sugli eventi esterni, specialmente quelli più a rischio di potenziali fallimenti. Tali famiglie vengono inoltre definite “invischianti” perchè i confini tra i vari membri sono molto labili: tutti invadono tutti, tutti dipendono da tutti, ognuno agisce comportamenti atti a rifuggire la solitudine, il rifiuto e l’abbandono.  In alcuni casi il paziente bloccato nella propria crescita individuale, il cosiddetto “paziente designato” usando una terminologia tipica della Psicoterapia sistemico-relazionale, è quello che a livello tacito nella famiglia potrebbe aver ricevuto il cosiddetto “mandato implicito”: rimani nel tuo ruolo di figlio, non crescere, non te ne andare, non cambiare perché altrimenti gli equilibri familiari potrebbero crollare.
Al figlio però a cui non viene concessa la possibilità di crescere accollandosi autonomamente il rischio di sbagliare, di fallire e di cadere, non verrà nemmeno insegnato come gestire il dolore della separazione, come rimediare ai propri errori e come fare a rialzarsi dopo un fallimento.
I genitori che fanno fatica a promuovere le capacità di svincolo dei loro figli faranno, dal canto loro, probabilmente fatica in futuro nel comprendere ed accettare la fisiologica necessità di confini tra il proprio nucleo familiare e quello che il figlio andrà a creare, quanto nel gestire l’uscita dalla famiglia di origine del figlio in maniera serena, senza percepirla come “un abbandono” o come un “tradimento”.

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